Pisa


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Profilo delle esperienze di potere personale e signorile in relazione al sistema politico:

Nei centoventi anni circa che intercorrono tra l’ascesa al potere di Ugolino Della Gherardesca (1285) e la conquista fiorentina della città (1406), Pisa visse quello che è possibile definire un “lungo Trecento signorile”, ovvero personaggi di diversa provenienza e origine sociale si succedettero, con alcune soluzioni di continuità, nel ruolo di domini cittadini. Per lo più si trattò di individui nati e vissuti in città. Essi furono in maggioranza aristocratici, per esser più precisi, fino alla metà del Trecento appartennero alla nobiltà territoriale: da allora in poi furono quasi tutti di estrazione popolare, ad eccezione di Carlo IV e dei Visconti di Milano, Gian Galeazzo prima, Gabriele Maria poi. Le circostanze che condussero uomini così diversi gli uni dagli altri a diventare domini furono le più disparate. In passato, per spiegare l’avvento di tali forme di potere personale, alcuni studiosi hanno parlato di “situazioni di eccezionalità” che stava attraversando il Comune pisano ogni qual volta fece ricorso al signore di turno. Eppure, su quei centoventi anni circa di storia, per più di ottanta la città di Pisa fu sottoposta a regimi signorili. Ottanta anni di situazioni eccezionali? Uno sviamento continuo della vita politica cittadina rispetto a un ipotetico corso, regolare e ordinato, inscrivibile nella categoria della libertà comunale? Una spiegazione del genere appare un po’ riduttiva. Ciò non vuol dire che in alcuni momenti, alla vigilia o all’indomani di un conflitto magari, la soluzione di un governante unico non sia stata reputata la più idonea per affrontare la situazione contingente. Tuttavia, proprio una considerazione del genere impone di osservare più da vicino questo lungo succedersi di regimi signorili, iniziando col porsi almeno due domande: chi si assunse, volta per volta, la responsabilità di scegliere un signore (ammesso che la scelta sia stata sempre libera)? E poi, i domini governarono realmente da soli il Comune di Pisa? Quest’ultima domanda può essere riformulata in altri termini, ad esempio chiedendosi se le soluzioni adottate furono tutte solo e soltanto frutto della volontà dei signori (cfr. scheda Della Gherardesca Bonifazio, Politica urbanistica e monumentale). Tali quesiti possono trovare un’unica risposta nel «popolo», nei suoi cives eminenti ma anche negli strati inferiori, e nelle sue istituzioni. Infatti, il filo rosso che lega tutte queste esperienze signorili, anche quelle apparentemente più eccentriche rispetto alla “via pisana” alla signoria – in particolare il quadriennio del Doge Dell’Agnello – è la dialettica, il rapporto, anche contrastato come nel caso del conte Ugolino, che ognuno di quei personaggi intrattenne con il Comune di «popolo». Quando il primo di loro, Ugolino Della Gherardesca, salì ai vertici della vita politica cittadina, i popolari governavano Pisa ormai da circa trenta anni, per la precisione dal 1254. Ciò significa che la trama delle istituzioni che essi avevano disegnato, e che aveva trasformato il Comune, era pienamente attiva e funzionante, aveva già innervato profondamente la società cittadina. Tutti i domini pisani si inserirono non all’interno del Comune, ma all’interno del Comune di «popolo». Qualche esempio, nel breve spazio qui a disposizione, consente di chiarire meglio cosa ciò significò per la storia dei regimi signorili pisani. Si pensi a Guido Da Montefeltro (1290-1293), che per ottenere una porzione di potere sufficiente a bilanciare quella dei cives eminenti, i quali tramite l’Anzianato controllavano il Comune, dovette assumere tre cariche: podestà, capitano del popolo e di guerra. Sessanta anni prima, circa, i suoi omologhi in Veneto, col solo officium podestarile avevano potuto controllare l’intera vita politica delle città nelle quali si erano insediati. Come è noto, però, nel corso dei decenni centrali del Duecento i magistrati forestieri videro quasi ovunque ridursi il proprio potere, a causa dell’affermarsi dei regimi popolari. Alla fine del secolo, un podestà, un capitano del popolo e un capitano di guerra a stento, tutti insieme, godevano di poteri reali equiparabili a quelli dei dodici Anziani i quali, insieme ai sapientes, dirigevano la vita politica pisana. Tuttavia, quanto profondamente il «popolo» fosse penetrato nella società cittadina, ridisegnandone la fisionomia, non va misurato soltanto sul piano della dialettica tra le istituzioni, ma va osservato guardando anche e soprattutto alla cultura politica popolare, al suo pensiero e al suo linguaggio. Solo così è possibile comprendere come mai, nel 1323, Ranieri I di Donoratico si adoperò per ottenere per sé e i propri familiari la sanzione statutaria di protettore e difensore del «popolo», una sorta di patente di popularis idealtipico che gli avrebbe garantito l’appoggio di quella componente sociopolitica. Per non parlare di Pietro Gambacorta, il cui titolo di dominus portava inscritto in sé evidenti richiami alla tradizione politica del «popolo». Lo stesso occhio di riguardo nei confronti delle ambizioni dei popolari lo ebbe Giovanni Dell’Agnellopopularis anch’egli come il Gambacorta. Egli provò a sottomettere le magistrature comunali, per primi gli Anziani, ma quando istituì la “casata dei conti” - sorta di nobiltà artificiale dalla quale avrebbe dovuto provenire di anno in anno un nuovo Doge - attinse in primo luogo proprio a famiglie di populares.

I pochi strumenti di elezione dei signori giunti fino a noi dimostrano, inoltre, che, nel corrso del Trecento, quasi tutti i domini furono investiti di un officium. Gli Anziani, ottenuta una balia ad hoc dai consigli civici, elessero il signore di turno a un incarico/officium. Questo comportava diritti, prerogative, ma anche doveri, non ultimo quello di mandare a esecuzione, in alcuni ambiti, ciò che decidevano gli Anziani stessi. Nella pratica, dunque, le magistrature di «popolo» – e con esse i cives eminenti che le incarnavano – si riservarono ampi margini di azione. Lo stesso iter elettorale definiva una situazione, se non di subordinazione dei domini rispetto agli Anziani, quanto meno di parità tra dominus e magistrature collegiali del Comune.

Quanto scritto fino a ora, in particolare le osservazioni sugli ampi margini di potere conservati dai populares, impone di porsi ulteriori domande: ma se il «popolo», i suoi esponenti più importanti, le sue istituzioni erano così potenti e attive, che bisogno c’era di ricorrere a forme di potere personale? La prima signoria fu forse il primo sintomo della crisi, di una lunga agonia del «popolo»? Perché affiancare ad Anziani e sapientes, i vari capitanei, Dogi o difensori del «popolo» che fossero – o magari soltanto un uomo del calibro di Banduccio Bonconti - con il rischio che questi ultimi sottomettessero il Comune? In altre parole, se le magistrature popolari e comunali erano così efficienti perché non continuarono a operare da sole? Perché si affermò il ricorso alle signorie? Rispondere a simili quesiti è uno degli obiettivi del presente progetto. Il caso pisano consente comunque di avanzare alcune ipotesi. In primo luogo va riconosciuto che non è possibile, allo stato attuale delle conoscenze, valutare quanto l’ambizione dei singoli a ergersi a signori della città pesò di volta in volta. Allo stesso tempo, è un dato di fatto che una volta concluse le singole esperienze signorili, la maggior parte delle soluzioni politiche, fiscali e amministrative adottate dal singolo regime, non solo non furono abrogate, ma spesso furono riproposte con maggiore enfasi da quello successivo, a volte composto dagli stessi uomini, come al tempo di Pietro Gambacorta e Iacopo d’Appiano. Si pensi, ad esempio, al fisco, in particolare ai consolidamenti del debito promossi senza soluzione di continuità tra il 1348 e il 1370, ovvero dal primo regime dei Gambacorta (cfr. scheda Gambacorta, Francesco), al periodo raspante, al quadriennio dogale e al ventennio di Pietro Gambacorta. Si guardi alla progressiva riduzione della sfera di influenza dei consigli civici, in favore di magistrature come gli Anziani e i sapientes, portata avanti da vari regimi signorili attraverso la quotidiana prassi di governo: nel momento in cui i signori operavano dall’interno delle commissioni di Savi (cfr. scheda Della Gherardesca, Gherardo), queste acquisivano centralità insieme all’Anzianato, di cui erano il braccio consultivo. Nel frattempo, le pletoriche assemblee consiliari, esattamente come avvenne in altre città che pure non conobbero esperienze signorili – Siena in testa - assumevano funzioni ratificative da un lato e di distinzione sociale dall’altro. Di tali processi è specchio fedele la documentazione pubblica, soprattutto le vicende del personale addetto alla sua redazione. Grazie alle scelte operate dai signori, da Bonifazio di Donoratico in particolare, il cancelliere degli Anziani divenne il vertice e il capo dell’intera cancelleria comunale, per non dire dell’amministrazione tutta. Il cancelliere degli Anziani e non, come in altre città, il notaio incaricato di redigere i verbali delle assemblee consiliari. Quest’ultimo, il cancelliere del Comune, seguì, infatti, il destino dei consigli le cui decisioni era incaricato di registrare e divenne un funzionario, certo importante ma subalterno rispetto al cancelliere degli Anziani.

Dunque, per riprendere una delle domande poste in precedenza, ovvero chi si assunse di volta in volta la responsabilità di chiamare il dominus di turno, possiamo affermare che di tutto ciò furono responsabili i principali esponenti delle famiglie di «popolo», i quali dalla seconda metà del Trecento godettero anche dell’aperto sostegno di alcune domus nobiliari. Essi, grazie alla presenza dei signori ai vertici delle istituzioni, videro crescere e non diminuire la propria influenza sulle forme del ricambio politico, sui mutamenti sociali e sulle trasformazioni economiche della società cittadina. Queste ultime, nel frattempo, procedettero secondo ritmi e forme non dissimili da quelle che sperimentarono in quegli anni città a diversa evoluzione politica, quali ad esempio, fatte salve le rispettive differenze, Firenze e Siena. Fintanto che il Comune rimase autonomo rispetto a poteri esterni, i Bonconti, gli Agliata, i Gambacorta, i Lanfranchi, i Gualandi e i Sismondi, pur in presenza di signori – alcuni dei quali provenienti dalle loro stesse fila – continuarono a controllare la vita politica locale. La loro presa sulla civitas venne meno soltanto con la perdita dell’indipendenza, all’indomani della conquista da parte di Firenze.

In sintesi, è possibile affermare che se Pisa rimase dal 1254 al 1406 un Comune di «popolo», pur con tutte le modifiche intervenute negli anni, ciò lo si deve, anche e soprattutto, al susseguirsi di esperienze signorili che germinarono dall’interno della – e grazie alla – cultura politica del «popolo», dalla quale quei signori furono legittimati e investiti delle proprie funzioni e prerogative, dei cui strumenti istituzionali si servirono una volta al governo, ma che a loro volta contribuirono a legittimare, a mantenere in vita e rinnovare.



Elenco cronologico degli Individui e delle Famiglie:
Bibliografia di riferimento:

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Note eventuali: