di:
Gabriele Taddei
Fino a pochi decenni fa, una delle ipotesi più autorevoli relativa alle origini della famiglia B. riteneva che essa fosse un ramo della vasta consorteria dei Lambardi di Carpineto, attestata nel contado aretino fin dall’XI secolo.
Una più recente rilettura del documento che testimonierebbe tale legame parentale ha però dimostrato che esso si fonderebbe su un vincolo matrimoniale acquisito e che pertanto B. e Lambardi non sarebbero stati congiunti da alcuna consanguineità. Le nuove proposte considerano i B. un lignaggio di origine cittadina, radicato nella contrada di San Martino de Castra, sufficientemente ricco e potente da disporre, fin dalla metà del XII secolo, di vasti possedimenti in Val di Chiana.
Quando, del resto, in quel torno di anni, i B. appaiono improvvisamente nella documentazione, essi fanno già parte dell’èlite dirigente aretina e membri della famiglia rivestono con continuità, fino ai primi due decenni del secolo successivo, importanti incarichi in seno alla gerarchia consolare del Comune di Arezzo. Rinaldo dei B., che era stato già dei Consoli nel 1182, fu podestà nel 1202 e ricoprì per la seconda volta questa dignità nel 1208; nel 1215 Guelfo dei B. assunse la suprema magistratura e tre anni dopo gli successe suo fratello Bartolomeo.
Originariamente militanti nelle schiere filostaufiche, membri della famiglia, tra i quali il già ricordato Guelfo, avevano partecipato alla Dieta di Spira del febbraio 1219 forse in qualità di procuratori dell’eremo di Camaldoli o dell’Abbazia di Capolona.
Solo attorno agli anni ‘30 del Duecento i B. mutarono radicalmente orientamento qualificandosi di lì innanzi come i più risoluti sostenitori del guelfismo aretino e dunque tra i principali rivali della famiglia Tarlati.
L’aspirazione dei B. ad imporre una costringente egemonia sulla vita politica aretina si concretizzò, con diseguale intensità, in tre distinte occasioni intervallate tra loro da lunghi anni d’esilio. La prima si verificò attorno al giugno del 1287, la seconda tra la fine del 1346 e la fine del 1347, la terza tra l’aprile 1379 ed il settembre 1380.
Il più risalente dei tre momenti vide i B. legarsi momentaneamente alla rivale famiglia dei Tarlati sulla base del congiunto intendimento d’abbattere il governo popolare di Guelfo da Lombrici. Superati i tradizionali antagonismi di parte, dopo aver destituito Guelfo e disciolto le associazioni di Popolo, “rimasono signori i grandi guelfi e ghibellini” ovvero, come lo stesso Villani afferma, i due gruppi aristocratici facenti capo, rispettivamente a Rinaldo de’ B. e Tarlato Tarlati. Nondimeno l’accordo tra gli esponenti dei due opposti partiti venne assai presto meno ed i B. furono espulsi dalla congiunta azione dei Tarlati e del vescovo Guglielmino Ubertini.
Dopo lunghi anni di esilio, durante i quali i membri della famiglia servirono in armi le città guelfe di Tuscia, i B. ritennero nuovamente di poter assumere un ruolo di primato entro gli equilibri aretini al termine della signoria di Pier Saccone ed in conseguenza della cessione cittadina a Firenze del 1337.
Ma ancora una volta, per quanto il primato politico della famiglia fosse motivato da una solida base di potere nel contado e dagli stretti legami con la dominante Firenze, il casato trovò nell’altro grande ceppo magnatizio di orientamento guelfo, i Brandaglia, un potente competitore che parimenti ambiva ad esercitare la propria egemonia sulla città ed alle cui iniziativa si dovettero, in buona parte, i nuovi provvedimenti d’espulsione che colpirono i B.
Tra il 5 ed il 6 novembre del 1346 i B., temendo di essere stati esclusi dal priorato per iniziativa dei rivali, assaltarono il Palazzo pubblico distruggendo la cassetta delle estrazioni ed eleggendo a loro arbitrio i nuovi Priori. Le conseguenze dell’azione, che dimostrò in modo inequivocabile le capacità famigliare di sovvertire le normali procedure comunali e piegare al proprio volere i tradizionali istituti cittadini, si protrassero per circa un anno durante il quale il casato proseguì a controllare rigidamente le pratiche d’imborsazione determinando la composizione dei principali organismi cittadini.
Un nuovo tumulto scoppiato nell’ottobre del 1347 che vide associati i Brandaglia con il Popolo, impose ai B., “per forza e tirannia che facevano a’ cittadini popolani” (G. Villani), il confino coatto nei propri possedimenti comitatini.
Durante il regime dei Quarantotto (che perdurerà fino al 1365) e quello successivo dei Sessanta (1365-1378), entrambi espressione della media gente guelfa, i B. non parteciparono dunque alla vita cittadina giacché, sebbene un primo rientro in città avvenisse fin dal 1371, una più completa riammissione si verificò solo al termine della sfortunata guerra degli Otto Santi (1375-78).
La sconfitta aveva prodotto un mutamento negli equilibri interni alla città e mentre il governo della media gente era uscito umiliato dal conflitto, le casate magnatizie riammesse -soprattutto quelle di più ortodossa fedeltà guelfa- poterono rapidamente recuperare importanti posizioni nelle magistrature cittadine. Il sollevamento popolare dell’8 aprile 1379, che sotto la guida dei Sessanta avrebbe dovuto invertire tale tendenza e portare ad una nuova espulsione dei grandi, fallì miseramente. I B. ed i loro partigiani, ormai padroni della città, promossero così un rinnovamento del governo in senso arciguelfo che si concretizzò nella diretta assunzione di tutte le principali cariche, nel totale rifacimento delle borse, in consistenti espropri ai danni delle famiglie rivali, in un ancor più stretto legame con Firenze. Il rivolgimento politico, attuato non solo con il sostegno delle alleate famiglie degli Albergotti e dei Camaiani ma anche del popolo minuto, fu guidato da messer Bostolo detto Bostolino, che il cronista Neri di Donato non esita a definire «signore d’Arezo».
Nonostante la notevole lacunosità documentaria è nondimeno possibile affermare che il nuovo regime, definitosi pur esso popolare, non abbia comportato mutamenti sostanziali nell’architettura istituzionale del Comune. Il predominio dei B. si realizzò dunque, nuovamente, attraverso il controllo delle pratiche d’imborsazione, il pervasivo inserimento di uomini fidati entro le principali assemblee cittadine, la costante pressione esercitata per il tramite dei propri partigiani.
Il governo arciguelfo di cui Bostolino fu l’anima si dimostrò comunque incapace di gestire la sempre più convulsa e conflittuale realtà aretina. Già a partire da quello stesso 1379 i Fiorentini tentarono di promuovere un riavvicinamento con i Sessanta ed i ghibellini Ubertini. Ma se tale intesa fallì, la vera minaccia era rappresentata dai Tarlati che, dopo la morte di Pier Saccone e nonostante la generale pacificazione del 1345, con il concorso di quegli stessi guelfi moderati espulsi in conseguenza dei torbidi d’aprile erano tornati a correre il distretto e stringere d’appresso la città. Chiusi entro le sue mura, privi di risorse umane ed economiche, i B. e gli arciguelfi si rassegnarono, come già prima di loro gli stessi Tarlati, a cedere Arezzo a chi fosse in grado di difenderla: il 14 settembre 1380, dopo intensi negoziati, furono gli stessi membri della famiglia a consegnare a Carlo di Durazzo le chiavi della città.
Inaspettatamente i B. si trovarono su posizioni di netto disaccordo con Guglielmo Giurino, primo vicario di quel sovrano francese il cui intervento essi stessi avevano promosso. La netta opposizione famigliare era generata dall’intenzione del vicario di pacificare la città e riammettervi Tarlati ed Ubertini. La conseguente sostituzione del Giurino con Marsilio Gonfalonieri prima e Jacopo Caracciolo poi, perorata dagli stessi B. presso Carlo, garantì la restaurazione di strettissimi rapporti di collaborazione con i rappresentanti del regime durazzesco, ora ferventi sostenitori della parte arciguelfa.
Del resto, assoggettata definitivamente la città a Firenze nel 1384, la posizione dei B. e delle altre famiglie arciguelfe avrebbe conservato la sua rilevanza nella gestione dei rapporti di potere con la nuova Dominante ai cui indirizzi politici, tuttavia, il Comune di Arezzo era ormai intimamente vincolato.
Sebbene, come già detto, la più recente storiografia non ritenga i B. una famiglia di signori rurali ma di milites urbani, fin dagli esordi del XIII secolo il casato dimostrò di essere particolarmente radicato in Val di Chiana, soprattutto attorno al castello di Cignano di cui fu investito nel 1210 da Ottone IV e dieci anni dopo da Federico II. La Val di Chiana fu del resto l’area dove i B. vennero confinati negli anni di esilio; presso Monte San Savino i membri della famiglia risedettero a lungo e da Castiglion Aretino, nel 1371, essi contrattarono le modalità del loro rientro. E’ assai plausibile (e nel secondo caso pressoché certo) che in entrambi questi grossi castelli la famiglia avesse intessuto solide clientele con le locali élite.
La distruzione degli archivi cittadini in conseguenza delle vicende che nel 1384 portarono al definitivo assoggettamento fiorentino ha ridotto il novero delle fonti per lo studio della storia medievale aretina. Il più ed il meglio di quanto si è conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze e l’Archivio Capitolare di Arezzo è stato pubblicato nella raccolta del Pasqui, inaggirabile strumento per l’analisi della parabola tarlaresca.
Fonti: S. Ammirato, Istorie fiorentine, Firenze, Marchini e Becherini, 1824-27; Donato di Neri, Cronaca senese di Donato di Neri e di suo figlio Neri, in Cronache senesi, a cura di A. Lisini e F. Iacomennti, in Ris, XV, p. VI, Bologna 1931-39; Ser Bartolomeo di ser Gorello, Cronica dei fatti di Arezzo, a cura di A. Bini e G. Grazzini, Rer. Italic. Scrip.2, t. XV, p. I, Bologna 1933; Ser Guido Notaro, Ricordi (1341-1354), in Pasqui, Documenti, IV, Cronache (sec. XV-XV), Arezzo, Bellotti, 1920; U. Pasqui, Documenti per la storia della città di Arezzo nel medio evo, Arezzo, Bellotti, 1916-20; G. Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, Guanda, Parma, 2007; M Villani, Cronica, Multigrafica, Roma, 1980.
Studi: A. Barlucchi, Palazzo B. Attività mercantili e vicende familiari nell’Arezzo medievale, Montepulciano, Le Balze, 1998; L. Berti, Arezzo nel tardo medioevo (1222-1440). Storia politico-istituzionale, Società storica aretina, Arezzo, 2005; A. Bini, Introduzione, in Liber Inferni Aretii, cronica in terza rima di Giovanni L. De Bonis, Rer. Italic. Scrip.2, t. XV, p. I, Bologna 1933; J.P. Delumeau, Arezzo. Espace et sociétés, 715-1230. Recherches sur Arezzo et son “contado” du VIII au début du XIII siécle, 2 voll., Roma 1996; J.P. Delumeau, Des Lombards de Carpineto aux B., in I ceti dirigenti dell’età comunale nei secoli XII e XIII, Pisa, Pacini 1982, pp. 67-99; J.P. Delumeau, Il Palazzo B., i nobili di Carpineto e il fenomeno “neo signorile”, «Notizie di Storia», III (2000), pp. 3-5; G. Fatini, L’ultimo secolo della repubblica aretina, «Bull. Senese di storia patria», XXXI (1924), pp. 92-106; G. Franceschini, Stoppedarca ed altre notizie di erudizione e di storia aretina, «Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca», XXXVIII (1965-67), pp. 162-196; A. Giorgi, Il conflitto magnati/popolani nelle campagne: il caso senese, in Magnati e popolani nell’Italia comunale. Atti del Convegno, Pistoia (15-18 maggio 1995), Pistoia, Centro Italiani di Studi di Storia e d’Arte, 1997, pp. 137-211; G. Tabacco, Nobiltà e potere ad Arezzo in età comunale, «Atti e Memorie dell’Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze», XLI (1973-75), pp.123-147; U. Pasqui, Prefazione, in Id., Documenti per la storia della città di Arezzo, III, Codice Diplomatico (an. 1337.1385), Bellotti, Arezzo 1920, pp. I-XV; C. Verani, Il colpo di mano dei B. del 1346 in una nota di ser Guido di Rodolfo, «Atti e memorie della Reale Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienza» XV (1933), pp. 320-322; C. Verani, La congiura dei Brandaglia, «Atti e memorie della Reale Accademia Petrarca di Lettere, Arti e Scienza» XV (1933), pp. 90-113; I. Walter, B., Fumo (Fummo, Fumaiolo, Fornaiolo), (sub voce) in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XIII, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1971, pp. 348-349; I. Walter, B. (Boscoli), Rainaldo, (sub voce) in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XIII, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 1971pp. 349-350.