di:
Maria Pia Contessa
1340 ca. - 5 giugno 1398
Doge: 17 giugno 1378; 15 giugno 1384 - 3 agosto 1390; aprile 1391 - 15 giugno 1392; 3 settembre 1394 - 23 ottobre 1396
Governatore: 27 novembre 1396-18 marzo 1397
Famiglia popolare dedita ai commerci e alle transazioni finanziarie la cui ascesa sociale risale al dogato del Boccanegra, epoca in cui alcuni A. entrarono a far parte del ceto dirigente benché non sembrino essere stati suoi aperti sostenitori durante le vicende che lo portarono al potere.
Negli anni Trenta e Quaranta del Trecento gli A. erano impegnati a smerciare sul mercato genovese prodotti di varia provenienza, in particolare manufatti dell’industria tessile. Forse proprio in questi anni tentarono di entrare nel giro delle transazioni finanziarie di alto livello, poiché risale al 1343 la chiusura o il fallimento del banco di Pietro Adorno. Nello stesso periodo è possibile rintracciare i primi indizi di promozione sociale per via matrimoniale: nel 1340 Adornino Adorno (persona diversa dal padre di Antoniotto) era sposato con una figlia del nobile Luchino Ultramarino che lo introdusse nel giro dei grossi affari, a quanto pare con successo poiché dal 1357 Adornino è qualificato nelle fonti come bancherius. Uno dei primi A. a rivestire cariche pubbliche fu Galeotto che compare fra gli Anziani nel 1344, mentre nel medesimo anno Baldassarre fu uno dei due ufficiali di Gazaria, la magistratura che tutelava gli interessi dei genovesi nelle colonie del Mar Nero.
Evento decisivo per le fortune della famiglia fu la partecipazione alla spedizione contro Chio nel 1346. Meliaduce Adorno era tra i popolari che armarono una galea e acquisì diritti sullo sfruttamento delle risorse di Chio entrando così nella maona. Nel 1362 troviamo fra gli azionisti Gabriele di Daniele, uomo di fiducia del Boccanegra (che gli aveva affidato importanti incarichi politici e diplomatici durante il suo secondo dogato), del quale di lì a poco prenderà il posto al vertice del potere.
In breve tempo, dunque, gli A. si affermaono all’interno della classe dirigente del primo doge al punto che una ragazza della famiglia ne sposò il fratello, Bartolomeo Boccanegra, e che un altro membro del casato ascese al dogato subito dopo Simone. Con Gabriele gli A. entrarono saldamente ai vertici della politica e della società genovesi. Egli poteva contare sull’appoggio dei popolari e del potente albergo Giustiniani nel quale erano confluiti i partecipanti alla maona di Chio: gli A. non avevano voluto farne parte preferendo mantenere il loro nome e la loro identità (diedero vita ad un albergo proprio), ma erano molto vicini agli aderenti sia in quanto azionisti della maona, sia perché la figlia dello stesso Gabriele sposò Pietro Recanello, figura eminente nell’associazione e nei traffici orientali.
Nel Trecento il lignaggio era articolato in diversi rami, e quello di Antoniotto era separato da quello di Gabriele fin dall’inizio del XIII secolo. Questo non significa che i membri delle varie diramazioni familiari avessero smarrito il senso di appartenenza al clan, poiché il padre di Antoniotto, Adornino, fu il primo della sua linea di discendenza a conseguire una carica civica divenendo Anziano durante il dogato di Gabriele. A differenza di alcuni suoi parenti, Adornino non doveva essere particolarmente facoltoso né lasciò agli eredi cospicue sostanze. Egli era impegnato in una modesta attività commerciale che lo vedeva attivo soprattutto in direzione dell’Oltremonte; inoltre possedeva quote di capitale investite nella maona di Chio e immobili situati sia nel centro più antico della città (abitava con la moglie e i figli nella zona del Fossatello, nei pressi del monastero di San Siro, in una dimora che probabilmente era di loro proprietà da varie generazioni), sia oltre la porta di San Tommaso in una area che fu inglobata dalle mura cittadine costruite alla metà del secolo: qui deteneva un pezzo di terra a Fassolo e un’abitazione vicina alla basilica di Sant’Agnese in cui si trasferì Antoniotto poco prima di assumere il terzo dogato. Antoniotto accrebbe il patrimonio ricevuto lasciando ai suoi eredi beni posti per la maggior parte lontano da Genova (feudi e investimenti nel debito pubblico fiorentino e pisano) e proprietà immobiliari cittadine che rappresentavano invece una percentuale esigua del valore patrimoniale globale.
La politica di acquisizione territoriale della famiglia fu legata alle ambizioni nobiliari di Antoniotto, nonché alla necessità di disporre di una riserva personale di uomini armati nei momenti di maggiore difficoltà politica, così come di una base operativa in cui trovare rifugio e preparare il contrattacco nell’eventualità dell’esilio. Antoniotto acquisì feudi e castelli nella Riviera di Ponente, dove avevano i loro centri di potere i marchesi Del Carretto con i quali instaurò legami di parentela e rapporti di amicizia. Alcuni di questi possedimenti uscirono dalle disponibilità del clan non molto tempo dopo l’acquisizione; il feudo di cui rimasero in possesso più a lungo fu Castelletto d’Orba, oltre Appennino in prossimità di Castelnuovo, che diventò base del loro potere nel XV secolo.
Fra il 1363 e la metà del Quattrocento gli A. espressero cinque dogi (dopo Gabriele e Antoniotto ebbero la carica il fratello di quest’ultimo, Giorgio, il figlio di questi, Raffaele, e il nipote di Giorgio, Barnaba), che complessivamente tennero il dogato per più di ventitre anni. Agli inizi del XV secolo appoggiarono i tentativi di Tommaso Fregoso (che secondo alcuni genealogisti avrebbe sposato una figlia di Antoniotto) di conquistare la carica, poi le due famiglie rimasero praticamente le sole a contendersela.
Doge e successivamente Governatore.
La prima volta fu proclamato doge dopo una rivolta popolare che lui stesso aveva organizzato assieme a Niccolò Guarco contro il doge in carica Domenico Fregoso.
La seconda volta riuscì a farsi eleggere per acclamazione al posto di Leonardo Montaldo morto di peste, dopo un fallito tentativo attuato l’anno precedente contro il Guarco.
La terza volta rientrò dall’esilio in cui si era ritirato spontaneamente poi, contro il consenso degli Anziani, invitò il doge in carica a rinunciare all’ufficio, gli offrì un pranzo e lo congedò con tutti gli onori.
La quarta volta si impadronì della città d’accordo con Antonio Montaldo, anch’esso in corsa per il dogato, poi, sebbene avesse promesso a quest’ultimo di non assumere la carica, provocò segretamente un’acclamazione popolare in un consiglio generale.
Ottenne il titolo di Governatore dai francesi a cui aveva ceduto Genova.
Si fece eleggere per acclamazione popolare la seconda e la quarta volta.
Anche se in epoca medievale furono numerosi gli esponenti della famiglia Adorno che ottennero il dogato, e benché da Antoniotto in poi (fino alla metà del Quattrocento) abbiano avuto accesso alla carica i membri di un unico ramo del casato - cosa che suggerisce l’intenzione di instaurare una successione dinastica-, solo nell’operato di Antoniotto è possibile rinvenire aspirazioni e comportamenti di stampo tipicamente signorile che conferiscono al suo governo i caratteri di una signoria di fatto. Tuttavia, egli non intervenne a modificare il sistema istituzionale instaurato con l’avvento del dogato, che fondamentalmente era ancora quello voluto dal Boccanegra nonostante la riforma decisa da Gabriele Adorno nel 1363 per impedire che le attribuzioni del doge potessero sconfinare nella signoria personale e nella tirannide.
Antoniotto coltivò l’ambizione di ergersi a difensore della cristianità contro gli infedeli e contro la minaccia dello scisma avignonese. Cercò pertanto di avvicinarsi a Urbano VI, che intervenne a liberare nel 1385 mentre era assediato a Nocera da Carlo di Durazzo per poi accoglierlo con tutti gli onori a Genova, ottenendo così riconoscimenti e prestigio presso molti sovrani dell’Occidente. Il pontefice fu ospitato con la sua corte per sedici mesi finché l’A., che intendeva proporsi come mediatore per risolvere la questione dello scisma, si rese conto che non avrebbe ottenuto i risultati sperati. Fece perciò in modo che il costoso e ostinato ospite con il quale non aveva trovato un’intesa se ne andasse, guadagnando peraltro alla Repubblica alcuni feudi ecclesiastici nella Riviera di Ponente. Fallirono inoltre due tentativi di espugnare le coste nordafricane, che coinvolsero anche il sovrano francese, compiuti fra il 1388 e il 1390 e presentati come interventi contro gli infedeli.
Si accostò ai Visconti dopo che fu mandato in esilio dal Guarco nel 1378 e mantenne con loro rapporti buoni per diversi anni. Pare che nel 1380, mentre era in corso la guerra di Chioggia, l’A. abbia partecipato ad una congiura con Gian Galeazzo Visconti alleato dei veneziani. Nel 1391 fu uno dei mediatori nella lite tra il Visconti da una parte e lega sorta contro di lui capeggiata da Firenze dall’altra. Gian Galeazzo lo aiutò quando tentò di tornare al potere dopo che fu cacciato dal terzo dogato nel 1392; sconfitto, l’A. si ritirò in Lombardia. L’intesa venne meno quando il Visconti appoggiò il progetto del genero, duca d’Orléans, di costituirsi uno stato territoriale in Liguria.
Fu in buoni rapporti con i Del Carretto, che lo appoggiarono promettendogli aiuto militare mentre si accingeva a riprendere il dogato per la terza volta. I marchesi lo ospitarono dopo il 1392, prima che si rimettesse in corsa per il quarto dogato, poi di nuovo quando rinunciò alla carica di Governatore nella primavera del 1397. Finì i suoi giorni presso di loro, a Finale, dove morì l’anno successivo a causa della peste.
Instaurò vincoli matrimoniali con famiglie della nobiltà genovese (lui stesso sposò in seconde nozze Ginevra di Alaone Doria; il fratello Giorgio sposò la figlia del doge Leonardo Montalto, poi una Spinola), sia per qualificare il casato che per ingraziarsi quella parte della nobiltà che lo contrastava assieme ai suoi avversari popolari. Importanti furono soprattutto i rapporti coi Fieschi, conti palatini, ben inseriti all’interno degli ambienti ecclesiastici, che lo aiutarono nel suo ambizioso progetto di sostegno al papato. Furono infatti l’arcivescovo di Genova Giacomo Fieschi, il cardinale Ludovico Fieschi e Luchino Adorno (fratello di Antoniotto e titolare della diocesi di Nicosia) a trattare direttamente con il papa per l’intervento del doge in suo favore mentre era assediato a Nocera.
L’A. era un uomo colto, versato nell’eloquenza e negli studi giuridici e compose lui stesso alcuni scritti di carattere politico. Favorì la creazione di un cenacolo di dotti e intellettuali legato alla cancelleria/corte, in linea con le aspirazioni signorili che nutriva, e che probabilmente nelle sue intenzioni doveva porsi come polo culturale alternativo a quello tradizionalmente rappresentato dalla curia arcivescovile. Uno dei principali animatori di questo circolo preumanista fu il fratello del doge, Raffaele. Colto e amante delle lettere, Raffaele era in possesso di una ricca e pregiata biblioteca nella quale figuravano diversi autori classici e testi di argomento storico. Fra i frequentatori abituali della cancelleria dogale rientrava Giorgio Stella, che proprio in quegli anni stava componendo i suoi Annali.
Fu protagonista della politica genovese in un periodo di accanita lotta per il dogato: acclamato dal popolo minuto, visse in un clima di ostilità alimentato da diverse congiure che lo spinsero a governare con severità.
La prima volta fu costretto dal Guarco a rinunciare alla carica subito dopo averla ottenuta e fu poi mandato in esilio dallo stesso Guarco, eletto doge al posto suo.
La seconda volta lasciò spontaneamente il potere, forse stanco delle contestazioni e delle congiure di cui era oggetto.
La terza volta fu sopraffatto dalle conseguenze del suo stesso tentativo di conquistare Savona: la resistenza dei savonesi suscitò a Genova la ribellione dei nemici (nobili e popolari), fra i quali si trovavano i suoi parenti Montaldo che si posero a capo della rivolta e lo cacciarono.
La quarta volta l’A., resosi conto della fine imminente dopo che Savona si era data in signoria a Luigi d’Orléans (che si stava ritagliando uno spazio di governo personale in Liguria con l’aiuto dei milanesi), instaurò trattative segrete con Carlo VI e gli offrì lo stato genovese vanificando i progetti del duca.
Si dimise spontaneamente da Governatore.
Soprintendenza archivistica per la Liguria, Repertorio di fonti sul patriziato genovese, scheda n. 2, Adorno, a cura di A. Lercari, [08/2011]:
Barni, G., La divisione del potere nelle costituzioni Adorno del 1363 e del 1413 (Nobili e Popolari), in La storia dei genovesi, Atti del I convegno (Genova 1980), Genova, Associazione nobiliare ligure, 1981, pp. 121-158; Day, J., I conti privati della famiglia Adorno (1402-1408), in Miscellanea di storia ligure, Genova, Università di Genova. Istituto di storia medievale e moderna, 1958, pp. 45-120; Georgii et Iohannis Stellae Annales genuenses, a cura di G. Petti Balbi, Bologna, Zanichelli, 1975; Oreste, G., Adorno, Antoniotto, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1, 1960, pp. 287-289; Petti Balbi, G., Cultura e potere a Genova: la biblioteca di Raffaele Adorno (1396), «Aevum », LXXII (1998), pp. 427-437 [ora anche in Ead., Governare la città. Pratiche sociali e linguaggi politici a Genova in età medievale, Firenze, Firenze University Press, 2007, pp. 247-259]; Petti Balbi, G., Tra dogato e principato: il Tre e il Quattrocento, in Puncuh, D. (a cura di), Storia di Genova. Mediterraneo, Europa, Atlantico, Genova, Società ligure di storia patria, 2003, pp. 233-324: 251-253, 256-260; Wardi, E.P., Le origini del patrimonio di una casa dogale di Genova (Antoniotto Adorno 1378-1398), «Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti. Classe di scienze morali, lettere ed arti», CLIII (1994-1995), pp. 285-321; Wardi, E.P., Le strategie familiari di un doge di Genova: Antoniotto Adorno (1378-1396), Torino, Scriptorium, 1996.