di:
Piero Gualtieri
1298 – 9 novembre 1328
13 gennaio 1326 – 9 novembre 1328
Vedi scheda famigliare.
Gli anni venti del Trecento furono per la Toscana anni di forte conflittualità fra i diversi Comuni, più o meno raccolti in due schieramenti politicamente connotati in senso guelfo e ghibellino. Fu l’esperienza di dominio di Castruccio Castracani, signore di Lucca, a costituire in particolare l’elemento di rottura di un equilibrio che nel corso del cinquantennio precedente aveva sostanzialmente premiato Firenze quale vertice assoluto del guelfismo toscano. In un contesto regionale segnato dalla crescente influenza del signore ghibellino, le cui armi di fatto sempre vittoriose parevano destinate a conquistare una dopo l’altra le varie città che gli si opponevano (e tanto più dopo la vittoria di Altopascio), la classe dirigente fiorentina cercò di riacquisire compattezza al proprio interno e solidità nei confronti dell’esterno rivolgendosi nuovamente agli Angiò per una guida politica e militarmente autorevole. La signoria sulla città fu così offerta, alla fine di dicembre del 1325, a Carlo di Calabria, figlio di re Roberto di Napoli. Ottenuto in tal modo il dominio su Firenze, nei mesi successivi Carlo venne acquisendo, con modalità e tempistiche diverse in relazione legate alle specificità dei singoli contesti, la signoria sulle diverse città che gravitavano all’interno dello schieramento guelfo (e in vario modo all’ombra di Firenze). A Siena, dove giunse nel luglio del 1326 mentre era in cammino per Firenze, Carlo ottenne la signoria grazie anche alle pressioni dei fiorentini, dopo che un grave tumulto aveva accolto la notizia della possibile sottomissione della città. Nei sei mesi successivi, furono i centri della Val d’Elsa a concedere la signoria all’angioino, senza dubbio accogliendo in maniera più o meno spontanea e convinta le suggestioni che in tal senso giungevano da Firenze. Fra questi, spicca il caso di Colle, dove l’acquisizione del dominio da parte di Carlo fu mediato in concreto da Albizzo di Scolaio Tancredi, che reggeva in maniera informale la terra, e che proprio nei giorni dell’affermazione del duca consolidò anche formalmente il proprio potere, in un complesso intreccio di legami politici e istituzionali. A Prato, infine, che si sottomise formalmente nel gennaio del 1327, la concessione della signoria a Carlo – che pure fu chiaramente influenzata dal vicino esempio di Firenze – venne invece vista dalla classe dirigente cittadina anche come un mezzo per sottrarre la terra alla sempre più pervasiva influenza fiorentina.
Il 23 dicembre 1325 i Consigli fiorentini approvarono la proposta dei priori di concedere la signoria per dieci anni a Carlo, quale reggente in nome del padre Roberto. Il successivo 13 gennaio egli accettò la nomina. Il 29 agosto del 1326 una nuova deliberazione ampliò ulteriormente i suoi poteri (e prolungò di pochi mesi la scadenza del suo mandato). A Siena, il 24 luglio 1326, il consiglio generale concesse a Carlo la signoria sulla città per cinque anni, con il potere di nomina del Podestà (in accordo col governo cittadino). L’8 settembre fu il Parlamento di Colle, riunito per l’occasione, a conferire a Carlo la signoria sulla città. Venti giorni dopo, Albizzo Tancredi, cui i colligiani avevano affidato balìa ed autorità senza limitazioni, rimise al duca i propri poteri. Nel dicembre fu la volta di San Miniato, che concesse a Carlo la signoria sulla città per cinque anni. I Consigli di Prato decretarono nel gennaio del 1327 la concessione della signoria a vita a Carlo ed ai suoi eredi. Nello stesso mese, infine, anche il Comune di San Gimignano gli si sottomise.
L’esperienza signorile di Carlo affonda le radici nella tradizione signorile angioina, nella sua specifica declinazione toscana. Essa si concretizzò a meno di un decennio dalla fine della signoria del padre Roberto, che aveva assunto il controllo di un numero ancora più ampio di città (e non solo toscane). Così come aveva fatto Roberto, Carlo scelse di governare il complesso delle città sottomesse – a lui legate con patti e condizioni eterogenee – lasciando per lo più intatte le strutture istituzionali e amministrative dei singoli Comuni, e operando in concreto attraverso propri vicari. Rispetto all’esperienza di Roberto, tuttavia, il dominio di Carlo si caratterizzò nel complesso per una maggiore incidenza sulla dinamica istituzionale, quantomeno in alcuni dei singoli contesti cittadini. Nello specifico, a Firenze (dove venne investito del potere formalmente quale reggente in nome del padre Roberto, fatto che richiama in maniera evidente la profonda connessione esistente fra le due esperienze) Carlo ottenne la signoria pressoché completa, con il potere di nomina sugli ufficiali e di modifica delle istituzioni, per la durata di dieci anni. Egli scelse di mantenere in vita il priorato delle arti, vertice assoluto del governo cittadino, ma ne avocò a sé la nomina, di fatto eliminando una delle dinamiche cardine del sistema politico fiorentino. Fu inoltre abolito, come durante la signoria di Roberto, il Capitano del Popolo, mentre il Podestà venne sostituito da un vicario ducale. La mano di Carlo si fece tuttavia sentire soprattutto in riferimento alla gestione delle finanze comunali, che vennero sottoposte a forte pressione (anche con la reintroduzione dell’estimo) a tutto vantaggio delle esigenze degli Angiò. Firenze, che fu la prima delle città toscane a concedere a Carlo la signoria, fu inoltre anche l’unica che lo vide reggere personalmente il bastone del comando per quasi quindici mesi a partire dal 30 luglio del 1326, il che testimonia a un tempo della centralità della città all’interno dello schieramento angioino e delle profonde connessioni che la sottomissione degli altri centri ebbe con l’influenza fiorentina in Toscana. In questa fase, grazie a un ulteriore pronunciamento dei Consigli cittadini del 29 agosto 1326, egli riuscì ad ampliare ulteriormente le proprie attribuzioni. Gli venne concessa la facoltà di decidere in solitario della pace e della guerra, così come della eventuale grazia ai ribelli del Comune. Intervenne inoltre in maniera pesante sulla struttura del governo comunale, abolendo le magistrature dei dodici buonomini (uno dei collegi di vertice del governo) e degli ufficiali della condotta, e quindi rafforzando la propria presa sulle istituzioni fiorentine. La sua partenza dalla città alla fine di dicembre del 1327 segnò in questo senso una battuta d’arresto nella sua azione di governo, nella misura in cui i vicari che da allora in poi lo sostituirono si limitarono in concreto a gestire il prelievo fiscale.
Anche a Prato la sottomissione a Carlo fu totale (e per di più a vita, estesa ai suoi eredi), comprensiva del diritto di modificare l’ordinamento del Comune. In questo caso tuttavia l’incidenza della guida di Carlo sulla dinamica istituzionale fu meno profonda. La sua concreta azione di comando si limitò infatti alla nomina dei vicari e alla partecipazione degli stessi nell’elezione degli otto difensori (magistratura pratese di vertice), lasciando pressoché intatte le attribuzioni delle varie magistrature cittadine e la dinamica di governo nel suo complesso. Nonostante la concessione della signoria a vita, e la creazione di un legame che nelle intenzioni dei pratesi doveva unire saldamente le sorti della città a quelle della dinastia angioina, il coinvolgimento di Carlo rimase tutto sommato marginale.
A Siena, dove Carlo ottenne la signoria per cinque anni, il suo potere fu invece circoscritto alla semplice nomina di un vicario, in sostituzione del Podestà. Tale funzionario, per di più, doveva essere scelto in accordo col governo cittadino, di fatto all’interno dei tradizionali circuiti di reclutamento del personale forestiero comunale. L’influenza diretta di Carlo nelle istituzioni e nella politica senese fu dunque forzatamente parziale, e limitata nei fatti alla generale adesione di Siena allo schieramento guelfo.
Più simili all’esempio senese che non a quello fiorentino o pratese appaiono i casi di San Miniato e San Gimignano (per i quali tuttavia le fonti disponibili sono scarse). Anche qui, il dominio di Carlo si concretizzò a livello istituzionale nell’insediamento di propri vicari in sostituzione dei tradizionali rettori forestieri. Oltre a ciò, egli assunse anche (almeno a San Miniato) la direzione e la gestione dell’ambito militare.
A Colle, che sperimentava già da alcuni anni il dominio di Albizzo Tancredi, la signoria di Carlo si limitò invece nei fatti a una generica supremazia formale. Ottenuta la sottomissione di Albizzo, il duca rimise infatti a quest’ultimo la gestione diretta del governo, accontentandosi di mantenere una sorta di dominio eminente sulla terra che trovò la sua espressione più compiuta nella partecipazione di Colle alla coordinazione guelfa.
La signoria di Carlo rappresentò uno dei principali momenti di affermazione e consolidamento della coordinazione angioina nell’Italia centrale della prima metà del Trecento. In particolare, l’azione di Carlo si mosse dal punto di vista politico per l’affermazione di un dominio angioino coerente in Toscana, che avesse Firenze come proprio centro di riferimento. In ambito militare, egli (che comunque sostanzialmente delegò la conduzione delle operazioni) dovette scontrarsi con le armi di Castruccio prima e del Bavaro poi, pur senza impegnarsi mai in battaglie campali.
A Firenze il ricorso alla signoria di Carlo trovò il consenso pressoché unanime della classe dirigente cittadina, sempre più preoccupata per l’attiva minaccia di Castruccio. La scomparsa improvvisa di quest’ultimo (e dunque di un importante collante fra la città e il duca), e soprattutto la politica fiscale aggressiva di Carlo, avrebbero tuttavia eroso gradualmente il consenso dell’angioino, provocando negli ultimi mesi del suo dominio un sempre maggiore malcontento fra le famiglie di vertice. Nelle altre città sottomesse, in cui l’atteggiamento nei confronti del duca di Calabria andò dalla sostanziale freddezza dei senesi alla dedizione aperta (ancorché interessata) dei pratesi, la concessione della signoria a Carlo vide in generale i diversi ceti dirigenti compatti nella sua promozione. Pesò, in questo senso, l’ingerenza più o meno forte di Firenze, che da anni ormai (con l’eccezione di Siena) poteva contare su legami profondi con famiglie e singoli personaggi eminenti. In ogni caso, non pare che al momento della morte di Carlo si fossero sviluppati in questi centri particolari sentimenti di ostilità alla sua dominazione.
Il giudizio dei contemporanei sull’operato di Carlo non fu eccessivamente lusinghiero. Dal punto di vista umano i cronisti ne sottolinearono l’indole delicata, amante dei piaceri e poco adatta al comando (così il Villani, nostra fonte principale: “Questo duca Carlo fu uomo assai bello del corpo […] ma non fu di gran valore a quello che potea essere, né troppo savio; dilettavasi in dilicatamente vivere e de la donna, e più in ozio che in fatica d'arme”). Per certi versi più tagliente fu il giudizio sull’operato politico. Al momento di raccontarne la morte il Villani sottolineò infatti come “il genero de' cittadini ne furono contenti per la gravezza della spesa e moneta che traeva de' cittadini, e per rimanere liberi e franchi, che già cominciava a dispiacere forte a' cittadini la signoria de' Pugliesi, i quali avea lasciati suoi uficiali e governatori, che a nulla altra cosa intendeano con ogni sottigliezza se non di fare venire danari in Comune, e di tenere corti i cittadini di loro onori e franchigia, e tutto si voleano per loro”. Poste tali premesse la considerazione conclusiva appare quasi scontata: “e di certo, se 'l duca non fosse morto, non potea guari durare, che' Fiorentini avrebbono fatta novità contra la sua signoria, e rubellati da·llui”.
Morte di Carlo, sopraggiunta nel novembre del 1328.
I documenti relativi alla signoria di Carlo (per lo più registri di delibere consiliari dei singoli Comuni, ma anche atti e registri di diversa natura) sono conservati per la maggior parte presso gli archivi dei diversi Comuni che gli concessero la signoria, confluiti ad oggi presso i rispettivi Archivi di Stato di riferimento.
Fonti: Storie Pistoresi. MCCC-MCCCXLVIII, a cura di S.A. Barbi, Lapi, Città di Castello, 1907-1927; G. Villani, Nuova Cronica, a cura di G. Porta, Guanda, Parma, 1990-1991.
Studi: R. Bevere, La signoria di Firenze tenuta da Carlo figlio di re Roberto negli anni 1326 e 1327, in «Archivio storico per le provincie napoletane», XXXIII (1908), pp. 439-6s, 639-62; XXXIV (1909), pp. 3-18, 197-221, 403-431, 597-639; XXXV (1910), pp. 3-46, 205-72, 425-58, 607-36; XXXVI (1911), pp. 3-34, 254-85, 407-33; R. Davidsohn, Storia di Firenze [1896-1908], 8 voll., Sansoni, Firenze 1956-1965, IV, pp. 1054 e segg.; G. Coniglio, Angiò, Carlo d’, detto l’Illustre, DBI; W.M. Bowsky, Un comune italiano nel Medioevo. Siena sotto il regime dei Nove 1287-1355, Il Mulino, Bologna, pp. 250-252; S. Raveggi, Protagonisti e antagonisti nel libero Comune, in Prato. Storia di una città, I, Dal Mille al 1494, Firenze, Le Monnier, 1991, I/2, pp. 613-736, pp. 622 e segg.; Introduzione, a Statuti del Comune di San Miniato al Tedesco (1337), a cura di F. Salvestrini, Pisa, ETS, 1994, pp. 5-54; A. De Vincentiis, Le signorie angioine a Firenze. Storiografia e prospettive, in «RM Rivista», http://www.storia.unifi.it/_RM/rivista/default.htm, 2001 (2); R. Ninci, Colle Val d’Elsa nel medioevo. Legislazione, politica, società, Monteriggioni, Edizioni Il Leccio, 2003, ad indicem; L. Pecori, Storia della terra di San Gimignano [1853], Comune di San Gimignano, 2006, ad indicem; J.M. Najemy, A History of Florenze, 1200-1575, Blackwell, Oxford, 2006, pp. 124 e segg.