di:
Giovanni Ciccaglioni
Secondo decennio del XIV secolo-1387
1364-1368
Giovanni era figlio di Cello di Iacopo. I Dell’Agnello erano ricchi mercanti di «popolo», anche se non di primo piano, come invece, ad esempio, i Bonconti, gli Agliata e i Gambacorta. Gli avi del futuro Doge immigrarono in città, probabilmente dalla Maremma, all’inizio del XIII secolo. Tra fine Duecento e inizio Trecento i Dell’Agnello avevano ormai raggiunto un alto livello sociale e politico grazie all’attività mercantile, svolta prevalentemente tra la Sardegna e l’Africa settentrionale. Il ramo della famiglia cui apparteneva Giovanni risiedeva nella cappella di Santa Cristina, nel quartiere di Kinzica, a sud del fiume Arno, nella zona dove risiedevano altre famiglie di immigrati illustri come i Bonconti e i Gambacorta.
Dux pisarum et populi civitatis eiusque comitatus fortie et districtus defensor ac civitatis lucane eiusque comitatus fortie et districtus capitaneus gubernator et defensor, 12 agosto 1364.
Prima di assumere la carica di Doge, Giovanni Dell’Agnello fu uno dei membri più in vista della fazione dei Raspanti (cfr. scheda Della Rocca, Tinucccio). Se si eccettuano gli otto anni del regime gambacortiano,1347-1355, Giovanni fu spesso impegnato in missioni di politica estera per conto del Comune in quelle stesse città – Genova, Napoli – , nei quali lo conduceva la propria attività di mercante. Sicuramente Anziano nel 1359, 1361, 1362 e 1364, e presenza costante nelle commissioni dei Savi, egli acquisì maggiore visibilità in occasione del conflitto tra Pisa e Firenze, 1363-64, concluso con la battaglia di Cascina (luglio 1364). All’indomani di quella rovinosa sconfitta per i Pisani, la pars raspante, che dal 1362 – dopo che l’ultimo vicario di Carlo IV, Gualtieri di Hochschlitz aveva abbandonato la città - controllava le istituzioni comunali, cercò di risollevare le sorti di Pisa affidandosi al Dell’Agnello, il quale aveva maturato ormai una notevole esperienza politica. Secondo quanto riportano le cronache, il 12 agosto del 1364 un gruppo di sostenitori e sodali del Dell’Agnello, accompagnati da una parte delle truppe mercenarie al servizio del Comune e da alcune società del «popolo», si recò presso la sua abitazione e lo condusse al palazzo degli Anziani. Lì, sempre su iniziativa dei suoi sostenitori, Giovanni fu proclamato Doge di Pisa. Immediatamente ricevette il giuramento degli Anziani rimasti ad assistere alla proclamazione – altri, evidentemente contrari a tale scelta, si erano già defilati - e quelli dei principali magistrati forestieri. Il giorno seguente, il neo Doge assistette alla messa in Cattedrale, al termine della quale fu formalmente investito della carica e presentato alla popolazione.
Agosto 1368 nomina a vicario imperiale da parte di Carlo IV, in cambio della rinuncia al titolo di Doge.
Il quadriennio dogale di Giovanni Dell’Agnello fu un’ esperienza di potere totalmente differente da quelle che avevano sperimentato, e sperimentarono in seguito, gli altri signori pisani. Si trattò dell’unico caso, almeno per Pisa, di un dominus locale che cercò di mettersi al di sopra delle preesistenti istituzioni comunali o, per meglio dire, di «popolo», data l’evoluzione politica cui era andato incontro il Comune pisano a partire dalla metà del Duecento. Tutti gli altri signori di estrazione pisana, infatti, operarono al fianco delle - ovvero insieme alle - magistrature comunali, Anziani e sapientes soprattutto, dando vita a una concorrenza tra e di poteri, che in alcuni momenti sfociò in contrasti, ma che impose per lo più la collaborazione tra i cives eminenti, ma non solo, e i domini di turno.
Un elenco delle principali novità introdotte dal Doge nella prassi di governo consente di comprendere meglio quanto fu innovativo il suo regime suo regime:
imposizione agli Anziani del «popolo» di un giuramento di fedeltà al Doge;
inserimento nelle scritture comunali della formula Anziani «per lo magnificho dogio», a indicare la dipendenza, non solo formale dei primi dal secondo;
istituzione di una «casata dei conti» composta da 17 famiglie, per lo più popolari, dalle quali teoricamente, giacche la rotazione non avvenne mai, avrebbe dovuto essere selezionato ogni anno un Doge (1365);
affidamento al nipote Gherardo del governo di Lucca (1366);
ereditarietà del titolo dogale per i figli Gualtieri e Francesco (1366);
obbligo per gli Anziani di abbandonare il loro palazzo, presso il quale, invece, secondo gli Statuti, dovevano risiedere per tutta per tutta la durata del loro mandato (1 settembre 1366);
modifiche nella redazione delle scritture comunali, con l’istituzione di una cancelleria del Doge e il ricorso allo strumento delle suppliche al signore da parte dei sudditi al posto delle petizioni agli Anziani da parte dei cives.
Per quanto concerne infine il titolo di Dux pisarum, l’opinione degli studiosi è che il Dell’Agnello si fosse ispirato a ciò che aveva potuto osservare, come mercante e ambasciatore a Genova, al tempo di Simone Boccanegra il quale aveva dato vita a una esperienza di potere signorile germinata dalla cultura politica antinobiliare e popolare.
In politica estera, all’indomani della sconfitta di Cascina (1364), il Doge si impegnò per stringere accordi duraturi con Firenze, anche al fine di convincere gli operatori commerciali fiorentini a tornare a servirsi di Porto Pisano. In seguito, il Dell’Agnello si fece promotore di una lega con le altre città toscane per la difesa comune contro le compagnie di ventura, che imperversavano nella regione e in tutto il centro Italia. La ripresa dei contrasti tra Pisa e Firenze, 1367, per la definizione dei confini tra i rispettivi territori non sfociò in una guerra aperta e non mise a repentaglio gli accordi stretti tre anni prima.
Anche in questo ambito l’esperienza di potere del Doge appare affatto differente rispetto a quelle degli altri signori pisani trecenteschi. Possediamo, infatti, testimonianze documentarie certe di una serie di interventi artistici e monumentali promossi dal Dell’Agnello, con i quali egli mirò a lasciare traccia di sé nel patrimonio culturale cittadino. Si tratta di due sepolcri, uno per sè in San Francesco, dove riposavano altri importanti esponenti del ceto dirigente popolare pisano, dalle cui fila proveniva lo stesso Giovanni, l’altro in Cattedrale per la moglie; un simulacro di trono regale di marmo da collocare nel coro della stessa Cattedrale di Santa Maria, e dal quale egli intendeva seguire le funzioni e i consigli che vi si svolgevano; infine un nuovo palazzo, per far posto al quale erano già state abbattute alcune abitazioni. A questi vanno aggiunte gli stemmi con le proprie insegne che egli fece scolpire su diversi palazzi, in città e nel contado, di fianco e/o al posto di quelli con le insegne del Comune.
Risultano alcuni abbozzi di una riforma, mai tradotta in pratica, dello studium pisano, il cui livello, fin dalla sua istituzione nel 1343, era rimasto assai mediocre.
Negli anni in cui fu al potere, Giovanni non subì tentativi aperti di ribellione da parte della popolazione, né dovette mai fare i conti con complotti e congiure ordite da cives eminenti. Tuttavia, egli si distaccò progressivamente dalla fazione che lo aveva portato al potere e privò gli stessi Raspanti di qualunque margine di azione politica, ergendosi di fatto a dominus assoluto della città. Così facendo il Doge vide lentamente, ma inesorabilmente, scemare il sostegno da parte dei sostenitori della prima ora.
(Cfr. scheda Gambacorta, Pietro) Le fonti cronistiche pisane della seconda metà del Trecento si caratterizzano per una sorta di neutralità rispetto ai numerosi cambi di regime che si succedettero in città. Non solo non troviamo giudizi di merito sull’avvento dei domini signorili, sul significato che l’innestarsi di poteri personali all’interno, o al di sopra, delle istituzioni comunali significò per queste ultime, ma sono pressoché assenti i giudizi sulle singole personalità. Fa eccezione un lungo capitolo, che l’anonimo estensore della Cronica di Pisa dedica alle figure del Doge e di Pietro Gambacorta. Il brano, [420], che si intitola significativamente «Hora voglo dire un pogo della superbia delli fiorentini», si apre con la descrizione del regime di Giovanni: «Messer Giovanni de l’Agnello in qua dirieto essendo Dogio e signore di Pisa, il quale fu uno grande citadino e mercante di Pisa inprima e poi fu signore di Pisa, come ditto è innanti, e’ signoreggiò Pisa quatro anni. E mentre ch’elli era signore, li fiorentini stavano asorto, e pure ch’ellino guardasseno bene le loro tenuti si teneano bene contenti, non ch’ellino s’inpacciasseno d’autre, peròe che ’l ditto messer Giovanni li tenea con grande paura e tremore. Elli avea al soldo pió di dumigla homini a cavallo, dimouta buona gente inghilese e dimouti fanti a ppiè, e aveali tolto San Mignato ed era per avere Pistoia e Volterra e anco dimoute antre castela come ditto è, che ss’elli fusse regnato signore pure due anni, elli serebbe istato signore di Toschana. Ma lo ’nperadore venne in quello tenpo ch’era per cresciere e per abattere la superbia delli fiorentini, elli fue isposto come ditto è, di che la fortuna àe balestrato di male in peggio, però che lle pechata delli pisani non sono anco purghate ora».
Come era accaduto nel 1355 per il regime di Francesco Gambacorta, anche la fine dell’esperienza signorile del Doge fu innescata dalla discesa in Italia di Carlo IV di Lussemburgo. Ciò che avvenne nel 1368 costituisce quasi una esatta replica di ciò che era avvenuto 13 anni prima. Anche in questa occasione, infatti, chi deteneva il potere tentò un abboccamento con l’entourage imperiale al fine di vedersi garantito lo status quo. Tuttavia, venuto meno il sostegno dei membri della casata dei conti, il Dell’Agnello dovette rinunciare al titolo di Doge in favore di quello di vicario imperiale, agosto 1368. Tale investitura, se ottenuta in un altro frangente avrebbe rappresentato una ratifica ulteriore, un riconoscimento e rafforzamento per il regime dogale. Invece, arrivata in simili circostanze, e soprattutto accompagnata dall’obbligo di spogliarsi del titolo di Doge, sancì il commissariamento, la messa sotto tutela di Giovanni. Nel settembre del 1368, un episodio fortuito, un caso inaspettato e improvviso fece precipitare gli avvenimenti. Mentre si trovava a Lucca per arringare il popolo, il ballatoio su cui si era issato cedette improvvisamente e Giovanni cadde rompendosi una gamba. L’infermità fisica si tradusse in debolezza politica. I Raspanti stessi dichiararono finita l’esperienza di potere del Doge e restituirono agli Anziani tutte le loro funzioni e prerogative originali. Lo stesso accadde a Lucca, i cui abitanti cercarono di liberarsi del Doge e del dominio pisano in un colpo solo, risultato, quest’ultimo, che ottennero nel 1370. Nel maggio del 1369 Carlo IV tolse al Dell’Agnello ogni residua speranza di poter tornare signore di Pisa: l’imperatore promosse una pacificazione tra le fazioni pisane, che costituì il prodromo per il ritorno a Pisa dei Gambacorta. Giovanni Dell’Agnello, allontanato dalla città, per alcuni anni cercò ancora, con il sostegno di Bernabò Visconti, di reimpossesarsi del governo di Pisa. I suoi tentativi, però, si esaurirono in qualche scorreria nel contado, rintuzzata, senza alcuna difficoltà, dai mercenari al servizio del Comune e del nuovo dominus, Pietro Gambacorta.
Archivio di Stato di Pisa, Comune, Divisione A, 37, 74, 139-144, 197; Archivio di Stato di Lucca, Anziani avanti la libertà, 44-46.
Fonti: Ranieri Sardo, Cronaca di Pisa, a c. di O. Banti, Roma 1963; G. Villani, Nuova cronica, edizione critica a cura di G. Porta, 3 voll., Prma 1990-1991; Cronica di Pisa. Dal ms. Roncioni 338 dell’Archivio di Stato di Pisa. Edizione e commento, a cura di C. Iannella, Roma 2005 (Fonti per la storia dell’Italia medievale, Antiquitates, 22).
Studi: P. Silva, Il governo di Pietro Gambacorta in Pisa e le sue relazioni col resto della Toscana e coi Visconti, Pisa, 1910; N. Caturegli, La signoria di Giovanni Dell’Agnello in Pisa e in Lucca e le sue relazioni con Firenze e Milano, Pisa 1921; O. Banti, Iacopo d’Appiano. Economia, società e politica del Comune di Pisa al suo tramonto (1392-1399), Livorno 1971; C. E. Meek, The Commune of Lucca under Pisan rule, 1342-1369, Cambridge Mass. 1980; M. Tangheroni, Dell’Agnello, Giovanni, in Dizionario Biografico degli italiani, vol. XXXVII; R. Pauler, La signoria dell’ Imperatore. Pisa e l’impero al tempo di Carlo IV (1354-1369), Pisa 1995; M. Tangheroni, Politica, commercio e agricoltura a Pisa nel Trecento, Pisa 2002, (1ª ed. 1973; A. Poloni, Trasformazioni della società e mutamenti delle forme politiche in un Comune italiano: il Popolo a Pisa (1220-1330), Pisa 2004; G. Ciccaglioni, Priores antianorum, primi tra gli Anziani. Criteri di preminenza, cicli economici e ricambio dei gruppi dirigenti popolari a Pisa nel XIV secolo, in Firenze e Pisa dopo il 1406. La creazione di un nuovo spazio regionale, Atti del convegno di studi, Firenze, 27-28 settembre 2008, a cura di S. Tognetti, Firenze 2010, pp.1-47.