di:
Gabriele Taddei
primi decenni del XIII sec.-1289.
1284-1288.
Pisa.
Per quanto non manchino genealogie che fanno risalire l’origine della famiglia al nipote del re longobardo Rachis, san Walfrido, morto attorno al 765, i primi membri della famiglia storicamente accertati sono i tre fratelli Rodolfo, Tedice e Gherardo di Gherardo, titolari, uno dopo l’altro, a cavallo tra X ed XI secolo, dell’ufficio comitale presso Volterra.
Dalla metà del secolo, essendo l’esercizio di questi poteri pubblici ormai contrastato da numerose forze concorrenti, il casato si sganciò dalla sua originaria circoscrizione d’ufficio orientando la propria attività in quella vasta area compresa tra le Colline pisane, il Valdarno inferiore e la Maremma settentrionale dov’esso disponeva di ingentissimi possedimenti. Progressivamente frazionatasi nei rami di Donoratico, Castagneto e Segalari, la famiglia, che pure nell’adozione congiunta del cognome Della Gherardesca manterrà una sua ideale coesione, s’inurbò in Pisa agli albori del XII sec. concorrendo attivamente al governo consolare. Una posizione di assoluta autorevolezza fu conservata anche nei successivi equilibri politici cittadini tanto che nel 1190 il conte Tedice di Donoratico fu il primo podestà pisano di cui si sia conservata memoria.
Rappresentando una delle consorterie di orientamento ghibellino più rilevanti della città, pur in aperto antagonismo con la famiglia Visconti, i Della Gherardesca parteciparono attivamente alla conquista della Sardegna. A partire dagli anni ‘70 del XIII secolo, proprio l’ambizione di controllare direttamente i possessi sardi espressa dal Comune di Pisa -ormai a guida popolare- da un lato spinse i membri delle due casate rivali a far fronte comune in difesa dei loro dritti sull’isola, dall’altro convinse U. ad avvicinarsi a quelle posizioni guelfe di cui i Visconti erano stati fino ad allora i principali alfieri.
Agli esordi del 1284, U. conte di Donoratico è nominato Capitano della guerra contro Genova; nell’ottobre dello stesso anno è eletto Podestà, carica che nel febbraio-marzo 1285 gli è straordinariamente confermata per un decennio. A partire dal settembre 1287, essendosi associato il nipote Nino Visconti, già titolare dell’ufficio di Capitano del Popolo, i due furono qualificati assieme Potestates et Capitanei, rectores et administratores et gubernatores pisani Comuni set Populi realizzandosi una “fusione” delle cariche prima detenute disgiuntamente.
Nel giugno 1275, l’attrito con il Comune di Pisa a riguardo dei possessi sardi (che già era costato al conte un primo allontanamento e quindi –al rientro- una sua incarcerazione), aveva indotto U. ad abbandonare la città per la seconda volta raggiungendo in esilio i guelfi ribelli, orfani del loro leader Giovanni Visconti morto appena due mesi prima. La pace siglata dai Pisani dopo le severe sconfitte subite ad Asciano e presso il fosso di Rinonico per mano degli estrinseci guelfi costrinse però a riaprire le porte al Della Gherardesca ed ai suoi seguaci. Nonostante il Comune si mantenesse fedele al suo tradizionale orientamento ghibellino, U. poté comunque raggiungere entro breve una posizione di assoluta autorevolezza. Contribuirono ad essa un insieme di fattori: gli ingenti patrimoni fondiari in Sardegna ed in Maremma, dai primi proveniva l’argento delle miniere famigliari di Villa Chiesa, dai secondi una parte determinante degli approvvigionamenti annonari per l’intera città; le nutrite schiere di fideles reclutate presso i castelli di Donoratico, Bolgheri e Montescudaio; infine la comprovata attitudine militare del conte, già ampiamente dimostrata nella conquiste sarde e nelle vicende che lo avevano visto opporsi alla stessa sua patria. Proprio grazie a quest’ultima qualità egli si vide conferire nel 1284, assieme al collega Andreotto Saraceno, il titolo di Capitano della guerra del mare e con esso i pieni poteri per gestire il conflitto con Genova. Ma, duramente battuta la città presso l’isola della Meloria e costituitasi una lega tra Genova, Firenze e Lucca in grado di stringere Pisa in una morsa esiziale, U. -come vuole una consolidata tradizione- impiegò la sua personale vicinanza allo schieramento guelfo proponendosi come il soggetto che meglio avrebbe potuto gestire il dialogo tra la città ed i pericolosi nemici. Così il 18 ottobre 1284, dopo che da più di mezzo secolo l’ufficio podestarile era stato tradizionalmente affidato a forestieri, i Pisani elessero a tale incarico il Della Gherardesca, persuasi che la sua collocazione politica avrebbe potuto allontanare la minaccia della lega guelfa. Di lì a quattro mesi, nel febbraio-marzo 1285, col consenso dei numerosi cittadini ancora prigionieri dei Genovesi, pur essi confidanti nelle capacità di U. di addivenire in tempi rapidi alla pace ed alla loro scarcerazione, la podesteria gli fu confermata per i dieci anni successivi.
Legittimato dall’attribuzione della podesteria decennale, U. si impegnò su due distinti piani. Verso l’esterno egli si adoperò a raggiungere con la lega guelfa quell’onorevole pace in prospettiva della quale gli era stato conferito l’ufficio. Fidando sulle sue personali amicizie entro il fronte antipisano, U. tentò di spezzarne la compattezza per vie diplomatiche. La cessione a Firenze ed a Lucca di alcuni castelli del Valdarno e della Versilia assicurò la neutralità di queste due città che, abbandonando l’alleata, lasciarono la sola Genova a proseguire il conflitto. Verso l’interno U. si adoperò per conseguire una pacificazione cittadina che garantisse di consolidare il proprio primato al fine di esercitarlo nelle forme meno contrastate possibili. Le assoluzioni e le riammissioni dei membri di alcune consorterie guelfe nell’aprile del 1286 precedettero di pochi mesi l’associazione al potere del nipote Nino Visconti, del resto già insignito della carica di Capitano del Popolo. L’inedito regime diarchico, che comportò una “fusione” delle cariche prima detenute disgiuntamente dai due, risultò pienamente evidente dalla paritetica attribuzione del titolo di Potestates et Capitanei, rectores et administratores et gubernatores pisani Comuni set Populi.
La lacunosità della documentazione pubblica pisana ha lasciato per molto tempo irrisolte una serie di questioni inerenti le effettive caratteristiche del regime ugolinano. Difficile infatti comprendere, a fronte dei costanti mutamenti della fisionomia delle cariche conferite nell’arco di due-tre anni, se l’ufficio concesso ad U. nell’ottobre del 1284 avesse già comportato delle novità rispetto ai tradizionali compiti podestarili, se la conferma decennale del febbraio-marzo 1285 avesse esteso i poteri del titolare non solo in termini cronologici ma anche “qualitativi”, se infine la cooptazione di Nino -non risolvendosi semplicisticamente in un’associazione del nipote- avesse introdotto sostanziali novità a seguito dell’accorpamento della carica podestarile e di quella capitaneale.
Fino ad anni recenti la storiografia s’era limitata a sottolineare il carattere di schietta reazione aristocratica assunto dal regime ugoliniano dopo trent’anni di egemonia popolare. Un siffatto, presunto, orientamento ben poteva abbinarsi alla tendenza dei due cosignori di ricercare l’appoggio di quelle componenti di Popolo rimaste fino ad allora in posizione subalterna. In tale cornice venivano inserite una pluralità di provvedimenti: il permesso conferito ai membri di alcune consorterie nobiliari di “smagnatizzarsi” sì da svuotare dall’interno la saldezza del regime popolare; il diritto riconosciuto alle Arti minori di accedere ai seggi di Anziani artefici precedentemente monopolizzati dalle Sette Arti maggiori. Nondimeno, se da un lato si era dovuto ammettere la persistenza di una salda opposizione nobiliare, dall’altro lato, in seno alla strategia volta al raggiungimento di un livellamento tra le varie corporazioni, s’erano individuate non poche ambiguità insite nel riconoscimento alle Sette Arti di taluni privilegi.
Una recente rilettura delle tracce lasciate dal complesso lavoro di revisione dei due Brevi del Comune e del Popolo portato a compimento dai diarchi entro il novembre del 1287, rintracciando le diverse stratificazioni normative, ha invece permesso di restituire al percorso politico ugoliniano una sua progettualità, evidenziando le diverse fasi nella quali tale esperienza signorile venne strutturandosi. Se l’assunzione del podestariato all’avvio del 1284 non comportò il conferimento di alcun potere trascendente i normali compiti del massimo giusdicente cittadino, a partire dall’ottobre di quell’anno –con la definizione della straordinaria durata decennale- U. iniziò ad introdurre alcune novità istituzionali volte a trasformare in chiave sempre più “politica” la propria carica, comprimendo, parallelamente, le competenze delle magistrature popolari. Sì stabilì che il Podestà affiancasse gli Anziani nell’elezione dei principali uffici e delle assemblee comunali, gli si attribuì in via esclusiva la nomina degli ufficiali destinati all’importante piazza di Cagliari e ad altri castelli comitatini, gli si conferì un’azione di controllo sulle spese pubbliche, si decretò -più genericamente- la precedenza delle norme contenute nel Breve del Comune (già ampiamente riveduto dal conte) rispetto a quelle del Breve del Popolo (sul quale U. non era ancora riuscito ad intervenire). In sintesi, prima della cooptazone di Nino, il personale predominio di U. si configurò attraverso la ridefinizione degli spazi politici detenuti dal Podestà e dal Popolo a tutto detrimento di quest’ultimo che dovette accogliere una partecipazione del conte a tutte le principali attività degli Anziani. Nondimeno il regime popolare era ancora formalmente riconosciuto e l’attività podestarile permaneva vincolata al rispetto dei Brevi.
A seguito dell’associazione del nipote, in base al chiaro intendimento di rendere i due congiunti il vertice assoluto dell’ordinamento pubblico, i poteri dei duumviri vennero sensibilmente irrobustiti mutando in modo evidente la fisionomia dell’intero sistema politico cittadino.Ogni provvedimento pubblico risultò sottoposto al beneplacito dei due, ai quali fu riconosciuta la capacità di esautorare in qualsivoglia momento l’Anzianato. In definitiva si riconobbe ai “Podestà e Capitani” la facoltà di derogare a quanto stabilito dal Breve se questa fosse stata la loro congiunta volontà tributando ad essa il valore di fonte normativa. Il potere dei diarchi, ormai caratterizzato da un’ampia discrezionalità, risultò così ben superiore alla somma dei poteri tributati un tempo, in via disgiunta, al Podestà ed al Capitano, laddove la residua autorità degli istituti di Popolo era ormai del tutto subalterna alla costringente tutela dei due.
Personalmente orientato verso il partito guelfo, ma appartenente ad una famiglia di tradizionale fedeltà ghibellina, U. intessé rapporti con entrambi gli schieramenti. La vasta (e solo apparentemente incoerente) ramificazione dei suoi legami è riscontrabile nelle stesse alleanze promosse per il tramite delle unioni matrimoniali della sua numerosa discendenza. Figlie e figli di U. si unirono non solo a membri di altre famiglie comitali di Toscana, piuttosto che a esponenti signorili del settentrione, ma persino con il casato Honestaufen in una rete assolutamente trasversale rispetto alle aderenze guelfe e ghibelline. Con il chiaro obiettivo di rafforzare la posizione famigliare nel giudicato di Torres, unico dei quattro regni sardi che ancora sfuggiva alla costringente tutela pisana, il primogenito di U. si era maritato con Elena di Honestaufen, figlia naturale di Enzo Re di Sardegna. Attorno al 1259, avvicinandosi alla famiglia Visconti, il conte aveva dato in sposa a Giovanni la maggiore delle sue due figlie; da tale unione era appunto nato Nino che, associato al potere dal nonno, sarebbe a sua volta divenuto cognato di Obizzo d’Este, sposandone la figli Beatrice. Altre tre figlie di U. si unirono ad Ildebrandino degli Aldobrandeschi conte di Santa Fiora, a Guido Novello dei Guidi e ad Andreotto Saraceni che lo stesso U. ebbe per collega nella sfortunata conduzione della guerra contro Genova. Un ulteriore figlio di nome Banduccio sposò Manfredina Malaspina.
Nel 1262, presso il giudicato di Torres, U. si fregiava della qualifica di Vicario di Re Enzo -di cui era appunto consuocero- allora prigioniero dei Bolognesi. Di lì a cinque anni, a seguito della spedizione contro il giudice di Cagliari Chiano, reo d’aver tradito i Pisani avvicinandosi ai Genovesi, U. si sarebbe attribuito il titolo di Dominus sexte partis regni Kallaretani.
Si devono a U. e Nino il riassetto del porto di Pisa tramite la realizzazione di nuove strutture difensive, il potenziamento dell’arsenale, il riattamento delle torri dell’intero circuito e vaste opere di sistemazione urbanistica tra le quali il lastricamento dei lungarni ed il completamento del ponte di Spina.
All’indomani della nomina congiunta, i diarchi pisani si adoperarono ad una drastica revisione della legislazione cittadina. Essa fu attuata tramite la più ampia possibilità di aggiungere, abrogare o modificare disposizioni con la sola limitazione che tale opera trovasse la piena concordanza tra i due. E’ nel contesto di tale attività legislativa, concretizzatasi nella più antica redazione del Breve Pisani Comunis a noi pervenuta, che si inserisce quella ricca normazione volta a ridurre quanto più possibile l’operatività delle istituzioni popolari.
Il regime ugoliniano, nato dalla contingente necessità di instaurare un dialogo con l’aggressiva lega guelfa, aveva rappresentato una frattura nella vita politica pisana sia abrogando dall’indirizzo univocamente imperiale che aveva sempre contraddistinto gli orientamenti cittadini, sia sovvertendo quella declinazione popolare cui da circa trent’anni tutta la sistemazione istituzionale s’era conformata.
L’aristocrazia era preponderantemente rimasta fedele alla causa ghibellina e la svolta ugoliniana non era stata condivisa neppure da buona parte della stessa famiglia Visconti, in seno alla quale esponenti di primo piano come Fazio e Ranieri s’erano fatti alfieri di quella tradizione per la quale l’avo Gherardo era stato decapitato a Napoli tra i partigiani di Corradino.
Ancor più il Popolo non mancava di ragioni per nutrire sentimenti di ostilità nei confronti del nuovo regime signorile. Al pari delle casate di antica tradizione, era anch’esso orientato in senso ghibellino; era stato scosso al suo interno dagli squilibri che le scelte di U. e Nino avevano ingenerato nei rapporti di forza tra le varie corporazioni cittadine; aveva infine dovuto subire il più radicale sovvertimento dei traguardi conseguiti negli ultimi tre decenni.
Proprio in seno alle Sette Arti, i cui interessi erano stati menomati a vantaggio delle altre corporazioni, venne coagulandosi una prima opposizione. Prendendo a pretesto un attrito tra i duumviri motivato dall’assassinio di un partigiano filovisconteo, esse imposero ai due di rinunciare alle cariche di Podestà e Capitano del Popolo in favore di Guidoccino de’ Bongi da Bergamo, fino ad allora loro collaboratore. L’esperienza del Bongi, che per la concentrazione dei due uffici ebbe pur essa una connotazione signorile, si esaurì in breve tempo con la restaurazione del precedente regime, allorché dopo pochi mesi U. marciò in armi contro il Palazzo del Popolo pretendendo che la sua autorità (e quella di suo nipote) venissero pienamente reintegrate.
L’universale notorietà conferita ad U. dai due canti finali dell’Inferno ha reso il Della Gherardesca oggetto di innumerevoli successive rappresentazioni, sia letterarie che figurative. Una buona parte delle opere, soprattutto di quelle ispirate dal clima romantico ottocentesco, è stata catalizzata dal presunto gesto cannibalesco adombrato dal noto (quanto ambiguo) verso dantesco. Si ricordano qui, tra le tante, le tragedie teatrali U. conte della Gherardesca di A. Rubbi (1779) e il Conte U. di A. Bucchi (1841) oltre al romanzo storico di G. Rosini, Il Conte U. della Gherardesca e i ghibellini di Pisa (1843). L’episodio dantesco del conte U. è naturalmente raffigurato da tutti gli illustratori del poema tra i quali I. Reynolds, A. Banfi, G. Diotti. Degno di menzione il gruppo scultoreo di Jean Baptiste Carpeaux (Louvre, 1857-1861). Persino due film: il primo diretto da Giuseppe De Liguoro nel 1908 ed il secondo da Riccardo Freda nel 1949.
Nonostante il primo fallito tentativo di rovesciamento che si era concluso con la breve parentesi della podesteria di Guidoccino de’ Bongi, l’estesa opposizione antiugoliniana venne presto organizzandosi in modo più maturo attorno alla figura dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini. Forte di un vasto schieramento, oltre che di abboccamenti presso i genovesi, l’Ubaldini sfruttò i contrasti nel frattempo nuovamente riemersi tra i due signori. Accordandosi con U., intenzionato a recuperare una posizione di personale ed individuale predominio, Ruggieri fece dapprima insorgere la città contro Nino, che lasciò Pisa il 30 giugno 1288, quindi contro lo stesso conte. A seguito di violenti scontri il Della Gherardesca, assediato nel Palazzo del Popolo, fu infine catturato assieme a figli e nipoti, imprigionati con lui entro la Torre della Muda e ivi lasciati morire di fame. Si interrompeva così, dopo circa tre anni di dominio personale ed uno di condominio, un’esperienza signorile la cui durata, fissata dal mandato del 1285, avrebbe invece dovuto essere decennale.
La perdita quasi totale degli atti pubblici del Comune di Pisa anteriormente al 1297 ha ridotto sensibilmente il panorama documentario attraverso il quale studiare le vicende precedenti il XIV secolo. I pur ricchi fondi diplomatici del locale Archivio di Stato sono comunque integrabili con la numerosa cronachistica. Del resto offrono nutrite informazione sull’esperienza ugoliniana non solo le narrazioni pisane, ma anche quelle genovesi, lucchesi e fiorentine.
Fonti: Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, a cura di L.T. Belgrano-C. Imperiale di sant’Angelo, Roma 1929; E. Cristiani, Gli avvenimenti Pisani del periodo ugoliniano in una cronica inedita, «Bollettino Storico Pisano», XXVI-XXVII (1957-58), pp. 3-104; Croniche di Giovanni Sercambi lucchese, a cura di S. Bongi, I, Roma 1892; Fragmenta historiae pisanae, in RIS, a cura di L. A. Muratori, XXIV, Bologna 1983, coll. 646-652; I Brevi del Comune e del Popolo di Pisa nell’anno 1287, a cura di A. Ghignoli, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1998; G. Villani, Nuova cronica, a cura di G. Porta, Parma 1990, ad indicem; P. Silva, Questioni e ricerche di cronistica pisana, «Archivio muratoriano», XIII (1913), pp. 42-53; Statuti inediti della città di Pisa dal XII al XIV secolo, a cura di F. Bonaini, Firenze, 1854.
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