di:
Tommaso di Carpegna Falconieri
1258 ca. - 1322.
1296 - 1322.
Vedi scheda famigliare.
Vedi scheda famigliare.
Conte di Montefeltro.
In età matura, Guido di Montefeltro aveva già coinvolto i figli nell’azione politica: il figlio maggiore Buonconte (m. 1289 a Campaldino) fu capitano del popolo di Arezzo, mentre F. compare per la prima volta nel 1295, associato al padre e allo zio Galasso nell’assoluzione dalla scomunica in cui erano incorsi. Ritirandosi il padre in convento, F. gli successe nell’esercizio della politica generale in Italia centrale, ma non nel controllo diretto di Urbino, che, privata del suo contado già dal tempo di Martino IV, per circa dieci anni fu retta da podestà e capitani scelti dalla Chiesa in una sorta di condominio con i conti, i quali ne detenevano solamente la custodia. Solo verso il 1306, accendendosi nuovamente il conflitto con il pontefice, F. riassunse il pieno controllo della città.
Non sono note conferme imperiali concesse a F. come conte di Montefeltro, ma egli fu nominato da Enrico VII comandante degli italici nell’esercito imperiale (1312), vicario di Pisa (nov. 1312) e vicario di Arezzo (7 apr. 1313) e intervenne a due privilegi imperiali (22 e 23 febbr. 1313).
Nei primi anni di governo, F. agì in sintonia con i congiunti, secondo una tipologia di signoria collettiva. Dopo la morte di Corrado e Taddeo di Pietrarubbia (1298 e 1299), esponenti di un ramo che si avviava a divenire ormai secondario, e dopo la morte di Galasso (1300), F. prese da solo le redini del governo, essendo gli altri suoi fratelli avviati alla carriera ecclesiastica, e si mosse in sinergia con gli altri grandi capi ghibellini. Egli seguì la linea politica dello zio Galasso a Cesena e quella del padre Guido a Pisa. In questa città, in particolare, fu di fatto signore per circa quattro anni, prima come podestà e capitano, in seguito come vicario imperiale. Concentrò la propria azione soprattutto nelle Marche, nell’Umbria e in Toscana (avendo Arezzo e Pisa come basi principali) piuttosto che in Romagna, dove la perdita di Cesena significò, di fatto, il definitivo ridimensionamento della potenza dei Montefeltro in Romagna. Oltre a Urbino, fu in particolare Cagli ad attrarre la sua attenzione, per il forte valore strategico di quella città, nodo e raccordo tra l’Urbinate e l’Eugubino. Il fallimento della sua politica si deve all’assenza di una vera e propria coesione intorno all’imperatore, a fronte di una marcata polverizzazione delle capacità operative in Italia centrale, alla ormai consolidata opposizione della casata dei Malatesta, i cui interessi erano radicalmente sovrapposti, e infine alla disparità di forze economiche della Curia romana rispetto alla lega ghibellina per finanziare le campagne militari.
Violento e battagliero, per molti anni in bilico tra fedeltà e rivolta alla Chiesa, G. si trovò a operare in un’epoca convulsa della storia della penisola italiana che, soprattutto in Italia centrale, rappresentò per la parte ghibellina la sua fase più bassa e ormai finale, tra il breve sogno di Enrico VII e l’attesa della discesa in Italia di Ludovico di Baviera. F. si può considerare un ghibellino in grado di operare passaggi tattici, mai duraturi, dalla parte della Chiesa. Come scrisse il cronista Marco Battagli di Rimini, «donec vixit, in Romandiola et Ducatu et Marchia semper erat capitaneus de omnibus Gebellinis» (p. 37). Fu saldamente a capo della rete di città e di signori ghibellini: soprattutto le numerose città marchigiane che si unirono, più volte sotto il suo comando, nella «società degli Amici della Marca», e i suoi stretti congiunti Speranza di Montefeltro e Uguccione della Faggiola, oltre a esponenti delle famiglie Tarlati e Ubaldini. Ebbe molti figli (tra i quali almeno otto maschi), ma non è noto il nome della o delle mogli.
Il 7 maggio 1298 Bonifacio VIII incaricò Rizzardo da Ferentino di rinnovare la sentenza di assoluzione del 1295 e poco dopo invitò F. a deporre le magistrature eventualmente assunte a Forlì e a Cesena: segno che molto probabilmente egli era, in quel periodo, podestà o capitano di quelle città. Nel 1299 fu podestà di Arezzo. Nel 1300 F. si impossessò per breve tempo della città di Gubbio insieme a Uguccione della Faggiola e a Uberto Malatesta di Giaggiolo. Il 28 luglio 1300 fu eletto capitano del popolo di Cesena in continuità con lo zio Galasso morto meno di un mese prima, ma ne fu cacciato dalla parte guelfa il 13 maggio 1301, mettendo fine in tal modo all’esperienza delle dominazioni feltresche nelle città della Romagna. Fu podestà di Arezzo nel secondo semestre del 1303 e nel primo semestre del 1304: nella primavera di quell’anno comandò l’esercito aretino contro Firenze. Nel 1305-1307 egli e suo cugino Speranza di Montefeltro furono i capi della lega delle comunità ghibelline detta degli «Amici della Marca». Nel 1309 era ancora capo degli «Amici della Marca», nonché capitano del popolo di Osimo e di Jesi. Nel 1310 e 1311 fu podestà e capitano generale del comune e del popolo pisano (l’anno successivo l’ufficio di podestà fu ricoperto da suo figlio Guido detto Tigna). Nel corso del 1312 fu nominato da Enrico VII capitano degli italici nell’esercito imperiale, alla fine dell’anno vicario imperiale di Pisa e poco dopo (aprile 1313) anche vicario imperiale di Arezzo, quindi, fino al 1314, fu eletto podestà della medesima città. Nel 1315 era di nuovo capo degli «Amici delle terre della Marca». Nel 1319, in piena guerra contro la Chiesa, essendo capitano generale di Osimo, Recanati, dei fuoriusciti di Jesi e degli altri marchigiani ribelli al pontefice, avendo fatto sollevare anche Spoleto ed Assisi, fu nominato duca di Spoleto dai suoi collegati.
I suoi fratelli Corrado (frate agostiniano, m. 1318) e Ugolino (m. 1321) furono rispettivamente vescovo di Urbino e preposito di Montefeltro; suo figlio Ugolino (m. 1363) fu vescovo di Fossombrone. F. diede sostegno alle correnti pauperistiche degli Spirituali, con le quali aveva comunanza di intenti sia per l’antica relazione della sua famiglia con il movimento francescano, sia per la comune avversione al papato avignonese. Godeva di protezione e sostegno politico presso molti ambienti ecclesiastici: nel 1318 il papa scrisse agli ordinari della Marca e della Massa Trabaria i quali tentavano di impedire che avessero effetto le sentenze di condanna contro di lui; nel 1320 era sostenuto segretamente dai cardinali Pietro Colonna e Napoleone Orsini e scopertamente dal vescovo di Arezzo Guido Tarlati; alla fine di gennaio del 1322 furono incarcerati, in quanto suoi fautori, i vescovi Giacomo di Fano e Pietro di Cagli e l’abate Tommaso di S. Paterniano.
Numerose lettere pontificie del periodo 1317-1322 (quello dell’aperta ribellione) denunciano la scelleratezza del suo comportamento impiegando un ricco armamentario retorico dai toni sempre più accesi. F. fu condannato come eretico e idolatra e contro di lui fu bandita una crociata di grandi proporzioni. Questa lotta, conclusasi con il suo assassinio, si può considerare come una tre le più dure campagne mediatiche dei primi decenni del XIV secolo.
Dante cita il padre Guido, lo zio Galasso e il fratello Buonconte, ma non nomina F. È stato ipotizzato che il verso del Purgatorio in cui Buonconte biasima coloro che non pregano per la sua anima («Giovanna o altri non ha di me cura», Purg. V, 89) contenga, nella parola «altri», una citazione indiretta – e anche per questo di tono riprovevole – del personaggio.
Condannato come eretico e idolatra (6 dic. 1321), divenuto l’obiettivo di una crociata che avrebbe accordato ai combattenti le stesse indulgenze che si potevano lucrare andando a liberare il Santo Sepolcro e infine sottoposto a una dura offensiva militare da parte di Pandolfo Malatesta, F. si asserragliò a Urbino. In città scoppiò una rivolta, probabilmente sobillata dalla parte avversa e dovuta anche alla pressione fiscale imposta dal conte per finanziare la guerra. Il 26 aprile 1322, dopo alcuni giorni di difesa disperata, F. si arrese alla mercè del popolo, ma fu trucidato insieme a un figlio. Altri figli, catturati e consegnati ai rettori ecclesiastici, morirono in prigionia o furono giustiziati; Nolfo invece riuscì a fuggire e, dopo due anni, recuperò il dominio su Urbino.
Vedi scheda famigliare.
F. Ugolini, Storia dei conti e duchi d’Urbino, Firenze 1859 (ediz. anas. Urbino 2008), I, pp. 109-125; M. Rossi, I Montefeltro nel periodo feudale della loro signoria (1181-1375), Urbania 1957, pp. 79-111; G. Franceschini, I Montefeltro, Varese 1970 pp. 162-220, 276 ss. (pp. 580 ss.: elenco di fonti e bibliografia); G. Franceschini, Documenti e regesti per servire alla storia dello Stato d’Urbino e dei conti di Montefeltro (1202-1375), Urbino 1982, nn. 83, 84, 98, 102, 104-108, 110-112, 114, 115, 117-127, 130, 135, 136-140, 146; F. Pirani, I processi contro i ribelli della Marca anconitana durante il pontificato di Giovanni XXII, in L’età dei processi. Inchieste e condanne trà politica e ideologia nel '300, Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della XIX edizione del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, 2007), Roma 2009, pp. 181-212; T. di Carpegna Falconieri, Montefeltro, Federico di, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, in corso di stampa (con elenco di fonti e bibliografia).