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Tommaso di Carpegna Falconieri
1220 ca. - 1298.
1253 - 1294.
Vedi scheda famigliare.
Vedi scheda famigliare.
Conte di Montefeltro; podestà di Urbino (1259); conte di Chieti (1267); conte di Giaggiolo (titolo reclamato per conto della moglie Manentessa, fino al 1269).
La morte in tempi ravvicinati del padre Montefeltrano II e degli zii (1252-1253) lo portò ad occuparsi degli interessi della casa di Montefeltro, prendendo in mano la direzione di quella parte della sua famiglia che si era mantenuta fedele all’Impero nonostante la sconfitta e la morte di Federico II.
La legittimazione al dominio sul Montefeltro e su Urbino derivava da investiture imperiali concesse ai suoi predecessori (il primo atto giunto fino a noi, di Federico II, risale al 1226: in esso i due fratelli Buonconte e Taddeo di Montefeltro sono chiamati conti di Montefeltro e di Urbino). Non si hanno informazioni sicure relative a possibili conferme emanate durante gli anni di G., ma queste molto probabilmente vi furono, stante la posizione di preminenza del personaggio nello scacchiere politico italiano. Nell’agosto 1267, per la fedeltà dimostrata da lui e dai suoi predecessori verso la casa di Svevia, Corrado II lo investì della contea di Chieti, esclusa la terra di Lanciano: in questo privilegio, G. è chiamato conte di Montefeltro e di Giaggiolo (nonché vicario di Roma, carica che deteneva in quel periodo). Del 1281 è una lettera di encomio dell’imperatore Rodolfo d’Asburgo il cui destinatario dovrebbe identificarsi in G. (cfr. Rossi 1957, p. 54 = Böhmer, Regesta Imperii, V, 1069). Finché fu vivo il cugino e avversario Taddeo di Montefeltro-Pietrarubbia (m. 1282), le cancellerie angioina e pontificia riservarono a quest’ultimo il titolo di «conte di Montefeltro e di Urbino», mentre G., per tutto il periodo di lotta contro il papato, venne indicato solamente come «di Montefeltro» (in numerosi casi «dictus comes Montisferetri»: “cosiddetto conte di Montefeltro”)», in quanto il pontefice e il re angioino di Sicilia non riconoscevano la legittimità della sua dominazione. Nel marzo 1295 G. fu definitivamente assolto dalle scomuniche in cui era incorso e venne reintegrato in tutti i propri onori e dignità. Negli atti papali successivi egli è chiamato «conte di Montefeltro», continuando dunque a escludersi la legittimità della sua signoria su Urbino, città di cui aveva recuperato il controllo nel 1294 ma che nel frattempo era stata formalmente estromessa dal dominio sul proprio contado.
G. dominò la scena dell’Italia centrale dagli anni Settanta agli anni Novanta del Duecento in qualità di signore di vasti domini, comandante militare della parte ghibellina, capitano di città (soprattutto Forlì e Pisa) e abile mediatore nei negoziati, muovendosi in sintonia con alcuni altri membri della famiglia, tra i quali principalmente il cugino Galasso (m. 1300). Benché egli fosse senza dubbio il più influente membro del lignaggio, il sistema di governo sui possessi dinastici fu di tipo consortile. Egli riuscì a consolidare il dominio nell’area urbinate e di gran parte del Montefeltro, basandosi essenzialmente sulla forza militare che gli proveniva dal controllo di vaste aree interne, dal comando dei contingenti filo imperiali e dall’esercizio delle magistrature civiche. Dal 1274 al 1283, in qualità di capitano dei forlivesi, riuscì a imporre la propria signoria sulle città di Forlì, Cesena e Cervia ed estese la dominazione su una buona parte della Romagna; dal 1289 al 1293, essendo capitano del popolo e podestà di Pisa (con un intervallo di un anno durante il quale le cariche furono affidate al cugino Galasso), fu di fatto signore di questa città. Questi tentativi di insignorimento furono però di breve durata. La volontà di costruire una vasta dominazione comprendente le Marche settentrionali e la Romagna si infranse contro l’assoluta contrarietà della Chiesa e degli Angiò e contro le resistenze locali. La forte sovrapposizione di interessi con i Malatesta lungo tutta l’area di frizione e confine corrispondente al Montefeltro, alle Marche settentrionali e alla bassa Romagna, fu la causa principale dell’esaurirsi della spinta dei Montefeltro verso settentrione.
G. fu sempre di parte imperiale e protagonista del ghibellinismo italiano. Stabilì solide alleanze con le grandi città, famiglie e personaggi di tradizione filo imperiale (Forlì, Arezzo, Pisa, Visconti, Guidi, Ubaldini, Tarlati, Lambertazzi, Traversari, Maghinardo da Susinana). Nel 1282 e nel 1289 sono attestati contatti con i sovrani aragonesi in funzione antiangioina. La prima fase di riavvicinamento alla Chiesa romana (1278-1280) si deve collegare essenzialmente alla debolezza dell’imperatore Rodolfo e della parte ghibellina in quel periodo, a fronte di una rinnovata capacità di controllo da parte dei pontefici e degli angioini. La seconda fase (1294-1298) si può invece considerare l’esito di una scelta religiosa, tanto che il figlio Federico avrebbe in breve tempo ripreso la sua stessa linea politica.
G. sposò in prime nozze Manentessa figlia di Guido conte di Giaggiolo presso Forlì e in seconde nozze una certa Costanza. La politica di alleanze matrimoniali dei conti di Montefeltro a quell’altezza cronologica non è ben conosciuta, ma si possono supporre matrimoni con le maggiori famiglie signorili dell’area marchigiana, romagnola e toscana. Nel 1281, G. tentò di far sposare un proprio figlio con una figlia di Malatesta da Verucchio, ma le trattative furono interrotte per la dura opposizione di papa Martino IV. Manentessa, figlia di suo figlio Buonconte (m. 1289), sposò Guido Salvatico dei conti Guidi, conte di Dovadola.
Comandante dell’esercito forlivese al seguito di Federico II dal 1240 (assedio di Faenza) al 1248 (assedio di Parma); podestà di Jesi (1260); vicario del re Manfredi nella Marca (anni ’60); vicario di Roma per il senatore Enrico di Castiglia (1267-1268); conte di Chieti (titolo conferitogli dal re Corradino nel 1267); capitano del popolo di Forlì (1274); comandante dell’esercito forlivese (1274-1283); capitano generale dei ghibellini di Romagna e dei fuoriusciti bolognesi (1274-1283); podestà, capitano del popolo e capitano generale della guerra del comune di Pisa (1289-1291, 1293); signore di Cagli, insieme ai congiunti Galasso di Secchiano e Corrado di Pietrarubbia (1293).
Il fratello di suo nonno, Taddeo, fu vescovo di Montefeltro; i suoi zii Ugolino e Taddeo furono vescovo di Montefeltro e frate minore; i suoi figli Ugolino (1260?-1321) e Corrado (1259-1318) furono rispettivamente preposito della Chiesa feretrana e vescovo di Urbino. La capacità di disporre delle dignità vescovili e capitolari nelle diocesi di Urbino e di Montefeltro a favore dei parenti, fu senza dubbio uno dei principali elementi di forza del personaggio e dell’intera casata. G. fu particolarmente vicino ai frati minori ed entrò nell’Ordine due anni prima di morire. Secondo Salimbene de Adam, egli attribuiva all’intercessione di san Francesco la liberazione dalla prigionia cui era incorso nel 1271 dopo la battaglia di Monteluro. Un altro cronista francescano, frate Elemosina, racconta la rappacificazione con Bonifacio VIII e l’entrata in religione.
G. fu protagonista di una faida familiare che lo vide opposto soprattutto allo zio Taddeo di Montefeltro-Pietrarubbia (cugino in primo grado di suo padre), capitano generale dell’esercito della Chiesa, morto a Forlì nel 1282 per mano delle sue milizie in una cruenta battaglia ricordata da Dante (Inf. XXVII, 43-44).
Le opinioni su G. furono fieramente contrapposte: considerato un acerrimo nemico dalla Chiesa romana, che lo scomunicò più volte, fu viceversa un cavaliere lodato dai suoi contemporanei, ricordato in numerose cronache e in due sirventesi romagnoli degli anni Settanta/Ottanta del Duecento. Egli deve a Dante Alighieri la sua fortuna come personaggio storico e letterario. Dante lo nomina nel Convivio, IV, 28,8, chiamandolo «lo nobilissimo nostro latino Guido Montefeltrano» e portandolo, insieme al cavaliere Lancillotto, come esempio illustre di persona che in vecchiaia aveva calato «le vele de le mondane operazioni». Lo eleva a protagonista del canto XXVII dell’Inferno, collocandolo tra i consiglieri fraudolenti nell’ottavo cerchio dell’ottava bolgia accanto a Ulisse – del quale condivide la pena essendo il suo corpo tramutato in fiamma . Guglielmo Ventura di Asti lo dice «sapientissimus virorum, fortis et largus et callidissimus in bellando»; Giovanni Villani lo definisce «gran savio e maestro di guerra e duce nelle battaglie»; Benvenuto da Imola lo considera superiore ai re Latino, Turno e Messenzio cantati da Virgilio. La costruzione mitopoietica della casata di Montefeltro si realizzò soprattutto intorno a questo personaggio, al di lui figlio Buonconte (morto a Campaldino nel 1289) e al duca Federico (1422-1482).
G. limitò fortemente la propria azione politica dalla fine del 1294, lasciando il cugino Galasso a capo della casata insieme al figlio Federico. Dopo circa due anni si ritirò nel convento francescano di Ancona, dove morì il 29 settembre 1298.
Vedi scheda famigliare.
F. Ugolini, Storia dei conti e duchi d’Urbino, Firenze 1859 (ediz. anast. Urbino 2008), I, pp. 44-92; M. Rossi, I Montefeltro nel periodo feudale della loro signoria (1181-1375), Urbania 1957, pp. 39-68; G. Franceschini, I Montefeltro, Varese 1970, pp. 46-62, 74-162, p. 580: elenco di fonti e bibliografia; G. Franceschini, Documenti e regesti per servire alla storia dello Stato d’Urbino e dei conti di Montefeltro (1202-1375), Urbino 1982 (nn. 27, 31, 33, 34, 51-53, 56-58, 60-63, 65, 67, 68-70, 81-83, 87, 90, 91); T. di Carpegna Falconieri, Montefeltro, Guido di, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, in corso di stampa (con elenco di fonti e bibliografia).