di:
Francesco Bianchi
1278-1343
1309-1343
Vedi scheda famiglia d’Angiò. La città capitale è Napoli.
Vedi scheda famiglia d’Angiò. Roberto – detto il Saggio − era figlio terzogenito di Carlo II e della principessa Maria, figlia di re Stefano V d’Ungheria.
Vicario generale del Regno di Sicilia e duca di Calabria dal 1296, principe di Salerno dal 1304, capitano generale della lega guelfa nel 1305, conte del Piemonte dal 1309, anno in cui subentrò a Carlo II, ereditandone i titoli di re di Sicilia e conte di Provenza e Forcalquier. Nel 1310 papa Clemente V lo nominò vicario papale per Ferrara e la Romagna e, nel 1314, vicario imperiale per l’Italia e senatore di Roma.
Roberto succedette naturalmente al padre dopo la morte di quest’ultimo (1309), dal momento che il primogenito Carlo Martello era scomparso nel 1295 e il secondogenito Ludovico aveva rinunciato ai suoi diritti di successione nel 1296, per abbracciare la vita religiosa.
Roberto fu riconosciuto legittimo erede del Regno di Sicilia e degli altri domini angioini con bolla di papa Bonifacio VIII del 24 febbraio 1297. La Contea del Piemonte gli fu conferita dal padre il 17 febbraio 1309 e, poche settimane dopo, seguirono i giuramenti di fedeltà di signori e rappresentanti dei comuni (fra cui Alba) al nuovo conte.
La trasmissione del titolo comitale a Roberto definì la Contea del Piemonte come feudo della corona siciliana, ma non comportò alcuna rilevante modifica nell’organizzazione di quei domini già stabilita dai predecessori, tranne le modalità di successione: Roberto, infatti, decise che anche la discendenza femminile avrebbe potuto ereditare i possedimenti subalpini, contrariamente a quanto prescritto da Carlo I e Carlo II, che invece avevano invocato l’applicazione della legge salica.
Ad esclusione di episodi di breve durata, come lo scontro con l’imperatore Enrico VII, la Contea del Piemonte rimase una regione marginale nel più ampio scacchiere geopolitico angioino, e Roberto – come Carlo II − ne affidò sempre il governo centrale a un siniscalco e capitano generale, occasionalmente affiancato o sostituito da altri plenipotenziari in situazioni di emergenza militare; il governo periferico, invece, rimase competenza del funzionariato minore già definito dai predecessori (vicari, capitani, giudici ecc.). In linea con le scelte di Carlo II, anche Roberto intese e utilizzò i beni comunali come regalia, confiscò le proprietà dei ribelli per compensare gli amici e privilegiò il dialogo con le società di Popolo. Inoltre, alcune zone piemontesi di confine furono spostate sotto la giurisdizione della Contea di Provenza, per ragioni strategiche e di sicurezza militare.
Il livello di autonomia dei vari centri soggetti, poi, dipendeva dalla formulazione dei particolari accordi pattizi stipulati al momento della dedizione: in genere erano le città di maggiori dimensioni (e potere contrattuale) a godere di più libertà e di soluzioni amministrative più rispettose delle prerogative locali, specialmente per quanto riguardava la determinazione degli oneri fiscali, di quelli militari e la scelta dei funzionari pubblici a livello locale. Nell’area lombardo-emiliana la dominazione angioina fu generalmente meno pervasiva e l’assunzione del personale politico non compromise i consueti canali di reclutamento preangioini, che preferivano gli ufficiali padani e toscani selezionati attraverso i tradizionali circuiti podestarili di matrice guelfa. In ambito subalpino, invece, la nomina del personale di governo proveniente dall’Italia nord-occidentale dovette convivere con quella di ufficiali transalpini e meridionali, imposti dai siniscalchi di Roberto, pur con significative differenze da caso a caso.
Peculiare la situazione di Genova, cui gli Angiò dedicarono speciali attenzioni, in virtù della rilevanza di questa importante piazza commerciale e marittima dell’Europa mediterranea. Come nel caso di Firenze, anche la dedizione di Genova fu a tempo determinato (inizialmente sette anni) e prevedeva la conservazione delle proprie strutture di autogoverno, cui però Roberto affiancò nuove istituzioni di controllo e, tra esse, un vicario preposto a seguire l’andamento delle sedute consiliari e un capitano generale per la gestione delle operazioni militari. Nel 1325, quando la città rinnovò la dedizione alla corona angioina, le due cariche di vicario e capitano generale, l’una con funzioni civili e l’altra con funzioni militari, furono unificate nella figura di un unico governatore con poteri straordinari, la cui comparsa costuiva un tentativo di superamento della tradizionale dialettica tra organismi municipali.
Fu meno incisiva l’azione angioina a Firenze, rispetto a Genova, sia per la maggiore precarietà e la più breve durata della dominazione, rinnovata ogni tre anni fino al 1322, sia per le clausule previste dalla dedizione pattizia della città. Alcune istituzioni di Popolo, abrogate o ridimensionate durante la signoria di Roberto, furono subito ripristinate dopo la partenza dell’ultimo vicario angioino, ma si provvide anche a una riforma degli statuti del podestà e del capitano del Popolo (1322-1325), che recepiva i nuovi assetti di potere dopo l’esperienza signorile, intesa come momento di consolidamento dei cambiamenti in corso nei rapporti di forza interni alla società fiorentina. L’esperienza angioina fu, quindi, funzionale all’allargamento della base sociale del gruppo dirigente del comune e alla piena affermazione del regime guelfo-mercantile, senza lasciare tracce significative nell’architettura costituzionale della città.
Coinvolto direttamente nelle scelte di politica estera e militare decise dal padre, fino al 1309 Roberto fu impegnato soprattutto nel governo del Regno di Sicilia. Lo nomina a conte del Piemonte e la successione a Carlo II lo spinsero a occuparsi anche dei domini piemontesi, nei quali intraprese azioni diplomatiche e militari per un’ulteriore espansione territoriale, dopo le conquiste paterne, anch’esso con frequente ricorso a truppe mercenarie. Nel 1310 fu nominato dal papa vicario a Ferrara; nello stesso anno ricevette la dedizione di Alessandria e rinnovò l’alleanza con Asti, città che due anni dopo fu formalmente soggiogata da Roberto, abile a sfruttare le ostilità tra fazioni avverse. Tra il 1312 e il 1313, in un periodo di grave conflittualità con l’imperatore Enrico VII, cui le truppe angioine avevano impedito l’incoronazione a San Pietro, Roberto si assicurò l’occupazione di Vercelli e Pavia (1312), cui fece seguito, l’anno successivo, la dedizione di altri importanti centri dell’area padana e toscana, che riconoscevano il re angioino come guida del partito guelfo e bastione contro l’occupazione imperiale: nel 1313 Cremona, Parma, Lucca, Firenze, Pistoia, Prato entrarono a far parte dei domini angioini, ma si trattò comunque di conquiste effimere e destinate a durare pochi anni, oppure dedizioni a tempo determinato, come quella di Firenze.
Alle rapide fortune del sovrano angioino si opposero i poteri signorili attivi nell’Italia nord-occidentale, attraverso una successione di alleanze variamente composte. Particolarmente efficace fu l’azione di contrasto operata dai Visconti, che tra il 1315 e il 1316 sottrassero agli Angiò Vercelli, Pavia e Alessandria (quest’ultima recuperata poi nel 1323). Le iniziative delle forze antiangioine continuarono negli anni successivi: Robertò cercò di contenere le perdite, contando sull’appoggio di papa Giovanni XXII, promotore di una crociata antiviscontea, e sull’intervento militare di Filippo di Valois, che nel 1320 stipulò un trattato con Filippo d’Acaia (pace di Cavallermaggiore), tuttavia poco vantaggioso per la corona angioina. Nel frattempo Roberto aveva ricevuto la dedizione di Genova (1318) e quella di Brescia (1319), città su cui conservò il controllo rispettivamente fino al 1334 e al 1330. Proprio nel 1334, inoltre, stabilì una più duratura pace con gli Acaia, all’indomani della morte di Filippo d’Acaia, già alleato del padre, ma anche uno dei più tenaci oppositori di Roberto. Al 1339, invece, risale la definitiva perdita di Asti, dove si insediò Giovanni II Paleologo, marchese di Monferrato.
Roberto era uomo di cultura, mecenate, autore di quasi trecento sermoni (per lo più incentrati su temi religiosi) e abile promotore di una politica di propaganda volta ad affermare la sua azione come punto di riferimento del partito guelfo in Italia, superando però i tradizionali schematismi politici e proponendo, invece, una prospettiva nazionale, in cui l’impero era presentato non solo in contrapposizione al papato, ma anche come invasore straniero e la corona angioina, invece, come baluardo delle libertà d’Italia. Si trattava di espressioni propagandistiche che, oltre a sostenere la causa angioina con opportune argomentazioni giuridiche, facevano ampio ricorso a raffinati espedienti retorici per denigrare la figura dell’imperatore e il movimento ghibellino, oppure per rimarcare le contrapposizioni culturali tra il mondo latino e quello germanico. Hanno valore propagandistico pure i cicli pittorici che Roberto fece dipingere decorare chiese e palazzi della sua capitale, Napoli, così come le miniature raffigurate nei manoscritti commissionati dal sovrano.
Una parte delle iniziative propagandistiche di Roberto d’Angiò erano volte a sostenere la legittimità della sua ascesa al trono, discussa da alcuni giuristi e oggetto di maldicenze (soprattutto negli ultimi anni del suo regno), a causa delle circostanze complesse in cui era avvenuta la successione ereditaria a Carlo II e nonostante la rinuncia ad eventuali rivendicazioni dinastiche da parte del nipote Caroberto, re d’Ungheria e figlio di Carlo Martello, a sua volta primogenito di Carlo II. Le polemiche intorno alla regolarità dell’incoronazione di Roberto e, quindi, ai diritti della sua discendenza lo indussero ad agire opportunamente per rafforzare i consensi a favore della nipote Giovanna, divenuta sua erede dopo la morte del padre Carlo di Calabria (1328), figlio primogenito e iniziale erede designato di Roberto. In questo senso si spiega anche la decisione di unire in matrimonio Giovanna con Andrea d’Ungheria, figlio di Caroberto, quantunque interpretata da alcuni come tentativo di compensazione verso il ramo ungherese della casata angioina.
Come per il padre Carlo II, anche i giudizi dei contemporanei su Roberto oscillarono a seconda dell’orientamento politico di chi li formulò: Francesco Petrarca gli dedicò l’Africa e ne mitizzò la figura, denigrata invece da Dante Alighieri. Nel complesso, però, prevalsero voci di ammirazione, non tutte adulatorie o propagandistiche. Ricorre, sia da parte di alleati che di avversari, anche l’accusa di avarizia, ma soprattutto l’immagine di uomo religioso e pacifico come il padre. A differenza di quest’ultimo, però, la mitezza del carattere non fu presentata come espressione di remissività, ma piuttosto ricondotta alla personalità saggia ed erudita di Roberto, che trova un corrispettivo preciso nella produzione letteraria del sovrano, nei suoi interessi culturali (che spaziavano dalla teologia alle scienze naturali), nel suo mecenatismo verso intellettuali e artisti. La figura di re sapiente tende poi a combinarsi con una esaltazione più politica da parte di quegli autori che celebravano l’angioino quale campione del guelfismo italiano, percorrendi temi civili che si ritrovano anche nella prima produzione umanistica.
Morte di Roberto d’Angiò (1343)
Vedi scheda famiglia d’Angiò.
La vita e l’attività politica di Roberto sono considerate in R. Caggese, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, Firenze 1922 (rist. anast. Bologna 2001-2002), 2 voll. Vedi anche: G. B. Siracusa, L’ingegno, il sapere e gl’intendimenti di Roberto d’Angiò, Palermo 1891; W. Goetz, König Robert von Neapel (1309-1343). Seine Persönlichkeit und sein Verhältnis zum Humanismus, Tübingen 1919; G. M. Monti, La dominazione angioina in Piemonte, Torino 1930, ad Indicem; A. Barbero, Il mito angioino nella cultura italiana e provenzale fra Duecento e Trecento, Torino 1983, pp. 124-182; A. Barbero, La propaganda di Roberto d’Angiò re di Napoli (1309-1343), in Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, a cura di Paolo Cammarosano, Roma 1994 (Relazioni tenute al convegno internazionale, Trieste, 2-5 marzo 1993), pp. 111-131; D. Pryds, The King Embodies the Word: Robert d’Anjou and the Politics of Preaching, Leiden 2000; S. Kelly, The New Solomon: Robert of Naples (1309-1343) and Fourteenth-Century Kingship, Leiden-Boston 2003; A. Zorzi, Gli statuti di Firenze del 1322-1325: regimi politici e produzione normativa, in Signori, regimi signorili e statuti nel tardo medioevo, a cura di R. Dondarini, G. M. Varanini e M. Venticelli, Bologna 2003 (Atti del VII convegno del Comitato italiano per gli studi e le edizioni delle fonti normative, Ferrara, 5-7 ottobre 2000), pp. 123-141; Gli Angiò nell’Italia nord-occidentale (1259-1382), a cura di R. Comba, Milano 2006, passim. Vedi poi la bibliografia generale sotto la scheda dedicata alla famiglia d’Angiò.