di:
Valentina Dell'Aprovitola
? – 1322.
informalmente e a intervalli fra 1301 e 1321
Vercelli
appartenenti dalla prima metà del XII secolo alla militia cittadina, gli Avogadro nel Duecento erano percepiti essenzialmente come magnati. Intorno alla metà del Duecento, nel momento di oscillazione della politica vercellese fra lo schieramento imperiale e quello della Chiesa, gli Avogadro si collocarono con decisione alla testa del partito guelfo. All’interno di un loro preciso progetto di egemonia familiare, gli Avogadro seppero far convivere la loro volontà di affermazione con le esigenze del movimento popolare, dal quale ottennero un forte appoggio nel 1243, quando lo scontro con gli avversari Bicchieri si fece più violento. Verso la fine degli anni Sessanta del secolo, precisamente nel 1266 e nel 1270, gli Avogadro si ritrovarono alla guida del populus e dei paratici della città, quando Guglielmo e Filippo Avogadro divennero podestà. Le basi della ricchezza familiare erano rappresentate dalla proprietà fondiaria e dall’attività feneratizia.
Simone Avogadro di Collobiano non fu mai ufficialmente riconosciuto come signore della città e la sua egemonia politica si sviluppò lasciando intatte le strutture del governo comunale, caratteristica riscontrabile in molte dominazioni urbane dell’epoca. Fu membro del consiglio comunale, e l’unico incarico esecutivo da lui rivestito del quale ci sia rimasta testimonianza è quello di sapiente, esercitato nel 1302 e nel 1304.
Ciononostante, nella politica cittadina emerge con chiarezza il ruolo egemone di S. e della sua famiglia. Negli uffici esercitati, S. ricopre sempre la posizione più rilevante, quasi primus inter pares: apre l’elenco dei sapientes del 1302 e del 1304; compare al primo posto in quello dei credenziari che nel 1303 approvarono l’accordo del comune con i conti di Masino. Ancora, nel 1305, è il primo degli otto personaggi che coadiuvarono il podestà Rizzardo Pietrasanta nella preparazione di un compromesso con i governatori del marchesato di Monferrato riguardo Trino (Rao). L’influenza di Simone sulla politica vercellese si mantenne anche quando, dal 1311, iniziarono a figurare ufficialmente altri signori.
La cacciata dalla città della parte ghibellina (1301), rappresentata in particolare dalla famiglia dei Tizzoni, rappresentò il momento ideale per l’inserimento di S. nelle strutture di potere di Vercelli: lo strumento più immediato di accesso al potere fu dunque la guida della parte guelfa.
: S. ottenne dei privilegi imperiali che però non modificarono gli assetti istituzionali e non legittimarono la sua signoria: essi, tuttavia, corroborarono le prerogative e i possessi signorili nelle campagne. Il 27 gennaio 1311 l’imperatore Enrico VII, prima di lasciare la Lombardia, concesse a Simone una rendita annua vitalizia di 500 lire di imperiali tratta "de regalibus nostris in civitate et diocesi Vercellensi" (Rao); con altro diploma della stessa data, di autenticità però dubbia, gli vendette concesse l’immunità perpetua da ogni fodro e taglia per i luoghi di Collobiano, Formigliana, Massazza e Lessolo, che Simone possedeva in allodio.
L’egemonia di S. si espresse rispettando le istituzioni comunali precedenti, ma andò nella direzione di un controllo quasi assoluto delle magistrature più importanti da parte di esponenti dei vari rami della famiglia Avogardo. Gli uffici di procuratore o di notarius camere furono ricoperti spesso da personaggi fedeli alla parte guelfa, come i Calvi e i Cocorella. S. utilizzò spesso come strumento decisionale i consigli ristretti e il consiglio generale, la credenza, convocato con frequenza soprattutto negli ultimi anni di predominio guelfo.
La signoria urbana di S. si esplicita chiaramente sul piano delle relazioni economiche con il comune. S., durante il suo quindicennio di dominio, potendo contare su una schiacciante superiorità economica, supplì spesso alla carenza di denaro del comune, intervenendo con consistenti prestiti. I vantaggi di questa situazione erano molteplici, primo tra tutti quello di permettere a S. di assumere il controllo quasi totale della finanze urbane, grazie alle quali poteva realizzare precisi obiettivi politici. L’affermazione di S. come principale referente politico locale maturò quindi grazie alla sovrapposizione tra disponibilità economiche e penetrazione negli affari comunali, in maniera simile a quanto accadde a Cremona con Guglielmo Cavalcabò o a Bologna con Romeo Pepoli.
Simone ebbe rapporti molto stretti con i maggiori signori guelfi del periodo. In modo particolare un importante alleato fu Guido della Torre, che riuscì a scalzare Matteo Visconti da Milano grazie anche all’appoggio ottenuto da Simone Avogadro. In occasione della discesa di Enrico VII, nel 1310, Guido della Torre convocò a Milano un consiglio dei capi guelfi per decidere una condotta comune nei confronti dell’Imperatore. Parteciparono Filippone Langosco, conte di Lomello, Antonio Fissariga, signore di Lodi, Gugliemo Cavalcabò, signore di Cremona e Simone Avogadro. Certamente questa selezione dimostrava come a quel tempo Simone fosse considerato uno tra i più potenti signori guelfi.
Si alleò successivamente, nel 1319, con Filippo di Valois, inviato dal papa Giovanni XXII nel tentativo di bloccare l’avanzare della potenza viscontea. Gli Avogadro, sperando nell’efficacia dell’offensiva di Filippo per essere liberati dal governo visconteo, versarono al principe 10.000 fiorini d’oro. La strategia non si dimostrò utile, poiché stando alle narrazioni cronachistiche, Filippo, una volta raggiunto il terreno di battaglia, fu prelevato da un messo di Matteo Visconti e condotto a parlamento in un luogo segreto. Dopo questo incontro, del quale possiamo solo immaginare i contenuti, Filippo decise di non proseguire con l’assedio, ma di tornare in Francia. Agli Avogadro non restò che rinforzare la loro alleanza con le città guelfe, con il Papa e con l’esercito della lega antiviscontea che si trovava accampato presso Valenza.
Durante il dominio angioino della città (1313-1315) nell’agosto del 1314 S. si recò insieme a Pietro Cho di Robbio come ambasciatore al parlamento angioino convocato a Cremona.
Il legame più stretto mantenuto da Simone fu con il vescovo della città, Uberto Avogadro di Valdengo. Il 1 gennaio 1313, pochi mesi dopo la cacciata dei ghibellini da Vercelli, quest’ultimo investì il comune di tutto ciò che esso teneva in feudo dalla chiesa eusebiana aggiungendo all’investitura tipica “de toto recto feudo quod dictum comune tenet et tenere consuevit ab episcopo, episcopio et ab ecclesia Vercellensi” anche l’investitura di tutta la giurisidzione non solo sulla città, ma sulla diocesi (“scilicet de omni iurisditione tam civili quam criminali civitatis et diocesis Vercellarum”). Tale concessione sembrerebbe rappresentare una svolta storica, ma non dobbiamo scordare che in realtà provenne da un vescovo sfacciatamente legato a Simone.
Due figli di Simone, Margherita e Facio, furono rispettivamente monaca nel monastero domenicano vercellese di S. Margherita e curato di Roppolo e Viverone.
Nonostante una certa storiografia abbia considerato gli Avogadro “proprietari” della chiesa di S. Marco in Vercelli, le testimonianze a disposizione portano a diluire questa affermazione. Certamente il luogo di ubicazione della chiesa corrispondeva alla zona della città con maggior concentrazione di case della famiglia degli Avogadro, ma le sole testimonianze di azioni attive nei confronti della chiesa riguardano Marco Avogadro, presente come testimone alla posa della prima pietra, nel 1266, e Rufino Avogadro, figlio di Simone, fondatore della cappella di S. Antonio annessa alla chiesa di S. Marco, nella quale venne sepolto.
Pur non potendo parlare di una precisa politica urbanistica di S., resta da notare che durante gli anni più convulsi dello scontro tra fazioni, gli Avogadro recintarono con alte palizzate ben tre quarti della città, dando vita ad una sorta di fortilizio infracittadino per difendersi dagli attacchi dei Tizzoni e dei loro alleati.
L’ascesa del potere personale di Simone è concomitante con la cacciata dalla città dei maggiori rappresentanti della fazione ghibellina, i Tizzoni, avvenuta nel 1301 grazie anche alla riorganizzazione delle forze antiviscontee promossa dal marchese Giovanni di Monferrato. L’esilio della fazione ghibellina durò fino al 1310, anno in cui l’imperatore Enrico VII, sceso in Italia, ordinò una pacificazione generale, firmata da entrambe le parti il 15 dicembre, che venne però disattesa poco tempo dopo. Vi furono scontri durante tutto il 1312, e il 14 luglio 1313 l’imperatore, venuto a conoscenza della rottura della pacificazione, dichiarò ribelli e posti al bando la città di Vercelli, Simone Avogadro e altri dei suoi, privati di “ogni privilegio, grazia, ragione, franchigie, libertà”; ordinò inoltre che la città di Vercelli fosse distrutta dalle fondamenta, e che pagasse una multa di 6000 lire d’oro. Le condanne pronunciate non vennero mai eseguite, anche per l’improvvisa morte dell’imperatore, che non era ancora riuscito a prendere la città. La morte di Enrico VII permette alla parte guidata da Simone Avogadro di rimanere al comando delle istituzioni vercellesi fino all’elezione di Matteo Visconti a “signore generale della città e distretto” di Vercelli nel 1316.
Nel 1320 l’arrivo in Piemonte di Filippo di Valois, che tenta di instaurare la propria dominazione anche in Vercelli, provocò nuovi fortissimi scontri tra Tizzoni e Avogadro. Dopo diversi capovolgimenti, i Tizzoni, coadiuvati dai Visconti, riuscirono ad asserragliare gli Avogadro nelle loro torri di famiglia. Sfiancato da un assedio di circa sei mesi, Simone Avogadro fu costretto ad arrendersi e a stipulare un accordo con i figli di Matteo Visconti, accordo che prevedeva la cessione ai ghibellini di tutte le fortezze detenute dai guelfi vercellesi. Come garanzia dell’accordo, Simone e altri dodici maggiorenti della sua parte furono condotti prigionieri a Milano da Matteo Visconti. Proprio nella prigione milanese pare che Simone sia morto, nel 1322.
pur non avendo mai ottenuto formalmente la signoria della città, i cronisti contemporanei non esitarono a definire S. vero e proprio signore di Vercelli. Diverse sono le testimonianze dell’autorità raggiunta da S. e dalla sua famiglia, delle quali occorre almeno ricordare quella dell’Azario, secondo cui “erat autem tunc temporis civitas Vercellarum possessa per illos de Advocatis”. Molto deciso sia il commento di Guglielmo Ventura, secondo il quale S. “tyrannice regebat” Vercelli, sia quello di Giovanni da Cermenate, per il quale S. era “principem in Vercelli”. Più tradizionali le definizioni di Giovanni Villani e di Galvano Fiamma, che definirono semplicemente S. come “signore di Vercelli”.
nel 1321, quando Simone fu catturato dai figli di Matteo Visconti e da questi condotto nelle carceri milanesi, dove morì.
Archivio storico del comune di Vercelli, Pergamene comunali; Hec sunt statuta comunis et alme civitatis Vercellarum, Vercelli 1562; Documenti dell’archivio comunale di Vercelli relativi ad Ivrea, a cura di G. Colombo, Pinerolo 1901 (BSSS, 8); I Biscioni, vol. II/1, a cura di R. Ordano, Torino 1970 (BSSS 181); I Biscioni, vol. II/2, a cura di R. Ordano, Torino 1976 (BSSS 189); I Biscioni, vol. II/3, a cura di R. Ordano, Torino 1994 (BSSS 198); I Biscioni. Nuovi documenti e regesti cronologici, a cura di R. Ordano, Torino 2000 (BSSS 216).
A. Barbero, Signorie e comunità rurali nel vercellese fra crisi del districtus cittadino e nascita dello stato principesco, in Vercelli nel XIV secolo. Atti del quinto Congresso storico vercellese, a cura di A. Barbero e R. Comba, Vercelli 2010, pp. 411-511; F. Cognasso, L’unificazione della Lombardia sotto Milano, in Storia di Milano, V, La signoria dei Visconti, Milano, 1955; A. Degrandi, Artigiani nel Vercellese dei secoli XII e XIII, Pisa 1996; V. Mandelli, Il comune di Vercelli nel Medioevo, vol. IV, Vercelli 1861, vol. IV; S. Pozzati, La famiglia Tizzoni nella politica vercellese dalle origini alla dedizione del 1335, in Vercelli nel XIV secolo cit., pp. 63-78; R. Rao, Comune e signoria a Vercelli (1285-1335), in Vercelli nel XIV secolo cit., pp. 21-62.