di:
Gabriele Taddei,
Gian Paolo G. Scharf
1282 ca. - 21 ottobre 1327.
Arezzo, 1315 - 21 ottobre 1327;
Sansepolcro (già Borgo San Sepolcro), 1318 - 21 ottobre 1327;
Città di Castello, 2 ottobre 1323 - 21 ottobre 1327;
Castiglion Fiorentino (già Castiglion Aretino), 2 aprile 1324 – 21 ottobre 1327 .
Vedi scheda famigliare.
Vedi scheda famigliare.
Ad Arezzo, nell’aprile 1321, dopo cinque anni di informale egemonia, il Consiglio Generale dei Quattrocento nominò temporaneamente il vescovo cittadino G. «Dominus generalis totius civitatis et comitatus». Di lì a tre mesi il presule otterrà la conferma vitalizia del titolo signorile.
A Borgo San Sepolcro e Città di Castello, G. si fregiò del titolo di vicario imperiale per quanto la legittimità di tale attribuzione appaia oggi dubbia.
A Castiglion Aretino, G. si presentò come signore della dominante città di Arezzo.
Già canonico della cattedrale aretina dal 1302 e arciprete della pieve dal 1303, alla morte di Ildebrandino Guidi, nel 1312, G. fu eletto vescovo dal Collegio dei canonici ottenendo la consacrazione da parte di Clemente V. In linea con la tradizionale autorità riconosciuta ai presuli aretini, il titolo episcopale garantì la possibilità un ruolo attivo nella politica cittadina. Leader della fazione dei Secchi, intransigentemente ghibellina, nondimeno G. adottò un’accorta condotta. All’interno della città, proseguendo nel solco tracciato dal suo predecessore, si fece garante di quella pacificazione che, siglata a Civitella, aveva imposto la fine delle ostilità tra guelfi e ghibellini. All’esterno, indusse la città a siglare la pace con Firenze e, secondo alcune testimonianze, a tributare la signoria, per i cinque anni successivi, a Roberto d’Angiò il quale avrebbe riconosciuto al presule la facoltà di codesignare i locali podestà. Il blando mordente del regime angioino su Arezzo e la parallela formalizzazione del diritto di nomina podestarile garantirono a G., da un lato, di tornare a sostenere la causa ghibellina, dall’altro di continuare ad essere il vero artefice della politica cittadina.
Parallelamente, l’autorità di G. si estese ad alcuni dei centri contermini la diocesi aretina e ad alcune delle grosse terre che, pur trovandosi al suo interno, erano riuscite fino ad allora a mantenere relativamente laschi i vincoli di soggezione con la città. Lo stesso stemma araldico assunto da G. -uno scudo recante tre mitrie indicanti rispettivamente Arezzo, Città di Castello e Cortona- attesta il dichiarato progetto di costruire un dominato sovracittadino. Nel 1318, fidando sulla benevolenza imperiale e l’alleanza di molte delle casate signorili appenniniche, G. procedette all’occupazione di Borgo San Sepolcro. Nel 1323, ormai divenuto «Dominus civitatis Aretii», intervenendo a sostegno di una sommossa volta ad abbattere la signoria di Branca Guelfucci a Città di Castello, G. vi inviò suo fratello Tarlatino il quale prese possesso del centro costringendo i locali guelfi alla fuga. L’anno successivo l’iniziativa di G. si orientò in direzione di Castiglion Aretino entro il quale sin dal 1311 suo fratello Pier Saccone poteva vantare il titolo vicariale. Il 2 aprile 1324 G. ottenne che il centro siglasse un ennesimo giuramento di fedeltà che avviò più costringenti pratiche di dominio.
A fronte degli indubbi successi del Tarlati, che all’esterno aveva riportato Arezzo a rappresentare uno dei principali centri di potere ghibellini ma all’interno si era fatto tutore di una generale pacificazione, il Consiglio dei Quattrocento, nell’aprile 1321, nominò G. Signore Generale della città. Il 6 luglio successivo, all’unanimità, tale titolo venne trasformato in vitalizio. Fu dunque la massima assemblea comunale a conferire definitiva legittimità ad un primato personale che si esplicava ormai da oltre cinque anni.
A Borgo San Sepolcro e Città di Castello, G. legittimò il suo dominio sulla scorta del titolo di vicario imperiale che non fu forse del tutto genuino anche se è probabile che una qualche forma di riconoscimento fosse stata effettivamente concessa.
La dominazione su Castiglion Aretino venne invece giustificata sul piano formale dalla sottomissione di questo centro alla città di Arezzo.
La parabola politica di G. presentò ad Arezzo almeno tre fasi: quella che dall’elezione vescovile proseguì fino alla sottomissione aretina a Roberto d’Angiò (invero ben poco documentata), quella che sarebbe coincisa con la breve parentesi angioina, e infine quella successiva che vide il Tarlati riconosciuto signore della città.
Nella prima il potere di G., ancora informale, derivò da un insieme di fattori. L’autorità politica da sempre riconosciuta in città ai locali presuli si abbinava nel contado alla diretta signoria vescovile su alcuni popolosi castelli (come Civitella e Bibbiena) entro cui era possibile reclutare schiere di fideles. Le precedenti esperienze di potere di Guglielmino degli Ubertini e di Ildebrandino Guidi, inoltre, rappresentavano dei momenti ancora vivi nella memoria collettiva che rendevano la città propensa a riconoscere la tutela vescovile. Infine la famiglia Tarlati, da decenni ai vertici della società aretina, poteva contare su vaste clientele ulteriormente ingrossate dal carisma personale di G., il quale, per quanto esponente di un casato intransigentemente ghibellino e leader dello schieramento dei Secchi, s’era premurato di proporsi come garante della pacificazione da poco raggiunta, conquistando così un consenso relativamente generalizzato.
Nel corso della seconda fase, la signoria angioina sulla città, a quanto affermano attestazioni successive, avrebbe garantito una più sicura formalizzazione della posizione di G. Considerato da Roberto il principale interlocutore politico, egli si vide riconosciuta la facoltà di codesignare i podestà cittadini ed il diritto di qualificarsi come vertice e tutore di tutta la gerarchia istituzionale aretina.
Allorché nel 1321 il Consiglio dei Quattrocento gli attribuì, prima temporaneamente e poi a vita, il titolo signorile, G. ottenne una definitiva ufficializzazione del suo potere. I pochi documenti superstiti dimostrano che, confermato il tradizionale Consiglio dei Quattrocento come principale organismo assembleare, il signore non assunse direttamente la podesteria della città. Si continuò invece il ricorso a ufficiali forestieri per lo più reclutati nei territori ghibellini di Romagna e delle Marche. Sebbene si tratti di labili tracce è dunque possibile desumere che la signoria tarlatesca, anche dopo la sua piena istituzionalizzazione, non si fosse discostata dalle forme che essa aveva avuto precedentemente il conferimento del titolo di «dominus». A colmare le lacune documentarie è stato del resto recentemente ipotizzato che i poteri attribuiti alla magistratura dei «Defensores civitatis», istituita solo nel 1327 dopo la morte del presule a seguito della revisione statutaria promossa dai suoi famigliari, fossero invero quelli un tempo detenuti da G., proponendosi il nuovo testo normativo di trasformare la signoria personale del defunto in un inedito regime famigliare a strutturazione diarchica. Se così fosse G., in qualità di «Dominus Generalis», avrebbe avuto autorità sulla custodia della città e dei castelli distrettuali, avrebbe esercitato un totale controllo sulle casse comunali, avrebbe potuto eleggere o rimuovere tutti gli ufficiali, soggetti al termine del mandato al suo sindacato. Lo stesso podestà non avrebbe potuto pronunciare alcuna sentenza senza esplicita approvazione signorile. Facoltà dunque amplissime (alle quali si deve aggiungere la capacità di monopolizzare le assemblee per il tramite dei propri partigiani più fedeli) che, pur non sovvertendo le strutture comunali, sovrapponevano ad esse un supervisore in grado di piegare alla propria volontà tutta la politica cittadina. Del resto l’assenza pressoché totale di un movimento popolare, ad Arezzo represso nel 1310, sollevava il signore dalla competizione con un possibile polo di antagonismo, mentre l’attenzione rivolta dal «Dominus» alla conservazione della pace tra Verdi e Secchi garantì una compatta adesione della società aretina al regime signorile attestata e perseguita tramite la cooptazione, fra i più fedeli collaboratori, anche di esponenti di famiglie un tempo ostili agli indirizzi tarlateschi. Proprio al rivale casato degli Albergotti apparteneva Alberico di Lando, rinomato legista che, per quanto di fede guelfa, fu nominato da G. suo Vicario Generale «in temporalibus».
La conservazione delle precedenti strutture comunali e l’incapacità dei locali sostenitori del guelfismo di esercitare una reale opposizione caratterizzò anche la dominazione di G. su Borgo San Sepolcro e Città di Castello. Il Tarlati infatti, che pure diede un piglio autoritario al suo governo, si limitò ad inviarvi propri rappresentanti che, nell’amministrare i due centri, si qualificavano come agenti per il vicario imperiale.
A Castiglion Aretino G. avviò una pratica assai costrittiva per l’elezione del locale podestà. Designata dai Castiglionesi una rosa di sei candidati, tutti membri della famiglia pietramalesca, G. avrebbe scelto tra questi il nuovo giusdicente. E’ inoltre possibile che già alla metà degli anni Venti del Trecento, come è invero attestato solo per il decennio successivo, l’elezione dei sei locali «defensores» rispondesse a criteri cooptativi volti a scongiurare l’accesso nel massimo collegio di individui ostili agli orientamenti tarlateschi.
Se ad Arezzo G. si propose quale garante della pace cittadina, all’esterno non rinunciò a qualificarsi come uno dei più vigorosi alfieri del ghibellinismo toscano. Nonostante la pace siglata con Firenze, egli tornò presto a collocare la città su posizioni nettamente antitetiche rispetto a quelle della lega guelfa ricercando parallelamente una stabile alleanza con Lucca e Castruccio Castracani. I due signori si proposero congiuntamente come il punto di riferimento toscano della rete interregionale di solidarietà ghibelline che annoverò, tra i sostenitori di Ludovico il Bavaro, i Visconti di Milano e gli Scaligeri di Verona.
Le prerogative connesse all’espletamento delle funzioni vescovili furono uno strumento di cui G. si avvalse per corroborare il proprio primato sulla città, in una indisgiungibile sovrapposizione tra attività pastorale e politica.
In tal senso, a titolo d’esempio, l’istituzione di un nuovo monastero cittadino di clarisse, affidato ad una esponente delle famiglia Ubertini nel rispetto della volontà testamentaria di un Bostoli, risultò utile a rinsaldare i legami con casati altrimenti collocati su posizioni ostili; allo stesso modo il controllo espletato dal vescovo sulle associazioni confraternali fu funzionale al disciplinamento della collettività aretina, non inquadrata in nessuna forma associazionistica di matrice popolare.
E’ altresì attestato che G. abbia favorito l’insediamento di familiari e congiunti in alcune delle pievi dei principali centri comitatini.
All’iniziativa di G. si deve la costruzione, nel 1319, di più ampie mura cittadine, l’ultimazione del “Duomo nuovo”, la cui edificazione avviata da Guglielmino Ubertini era stata interrotta dopo la giornata di Campaldino, ed un generale riordino dell’impianto urbano. Parallelamente G. portò a termine la realizzazione del sistema viario extracittadino, pur esso avviato dai suoi predecessori: un insieme di strade disposte a raggiera che dalle varie porte, dopo aver attraversato la piana prospiciente la città, la congiungevano alle varie contrade del suo distretto.
Anche a Borgo San Sepolcro, G. fu promotore di una notevole campagna di rinnovo edilizio oltre che della realizzazione dello stradone rettilineo che tuttora collega tale centro ad Anghiari, altro castello soggetto all’autorità famigliare.
A Castiglion Aretino, G. provvide ad abbattere le abitazioni interne al primo circuito murario, trasformandolo in un cassero ad uso esclusivamente militare, e ad ampliare le difese più esterne.
A fronte di una salda coesione cittadina, il regime di G. trovò i suoi più tenaci oppositori all’esterno dell’ambito urbano. La politica di aperta adesione al partito ghibellino assicurò al signore l’ostilità non solo di tutte le città guelfe di Toscana e d’Umbria ma anche quella di papa Giovanni XXII che considerò l’occupazione di Città di Castello come un’offesa direttamente portata alla sua autorità temporale. Nel 1324, il pontefice, dopo aver ripetutamente reclamato obbedienza, intimò a G. di restituire «Civitatem Castelli ad pristinum statum et regimen» orinandogli congiuntamente di rinunciare alla signoria su Arezzo. La mancata comparsa, entro il termine trimestrale concesso, comportò la scomunica del Tarlati e la sua interdizione dai pubblici uffici. La conseguente deposizione dal seggio vescovile permise a Giovanni XXII di designare un nuovo presule scelto tra gli esponenti di una delle famiglie più ostili ai Pietramala. Ma Buoso degli Ubertini, per quanto consacrato il 5 dicembre 1326, fu comunque impossibilitato ad occupare materialmente la cattedra non potendo accedere in una città entro la quale G. continuava ad esercitare tutte le sue prerogative. Nel frattempo, il 9 giugno 1325, dopo aver mosso avverso a G. ben 14 capi d’accusa, il pontefice aveva tentato di vibrare un altro colpo all’autorità del Tarlati: scorporando Cortona ed il suo distretto dalla diocesi aretina, Giovanni elevò questo centro a dignità vescovile attribuendone la cattedra a Ranieri, anch’egli della famiglia Ubertini. Tra l’agosto 1326 ed il luglio successivo, infine, il legato pontificio in Toscana Giovanni Orsini dichiarò eretici sia G. sia il suo alleato Castruccio Castracani. Ma per quanto gli strali pontifici si abbattessero sul Pietramala, il suo dominio aretino si dimostrava saldo e la città compattamente schierata al suo fianco.
Tra le principali celebrazioni dell’operato di G. si deve annoverare il cenotafio fatto edificare dal fratello Pier Saccone all’interno del Duomo. Il mausoleo, attraverso 16 bassorilievi, descrive la parabola di G. il quale, postosi a guida del comune aretino, inizialmente rappresentato come un vecchio cadente oggetto di ludibrio da parte di una torma violenta e divisa (il Comune pelato), rende la città, dopo aver piegato al suo dominio numerosi castelli e comunità del territorio, potente e temuta (il Comune in signoria). Legato anch’esso alle celebrazioni post mortem ed altrettanto encomiastico risulta il componimento noto come Lamento di Arezzo per la morte di Guido Tarlati. Un tributo parimenti lusinghiero è quello rivolto da ser Bartolomeo di ser Gorello che nella sua cronaca in terza rima declama G. «signor valente / magnifico, grazioso e pien d’ardire / a Ghelfi e Ghibellin tanto piacente / questo per sue virtù senza mentire / eletto fu per comune concordia/ dal popol mio aventuroso sire». Nella memoria cittadina, del resto, la signoria di G. finì per rappresentare l’ultimo periodo di splendore prima del definitivo tramonto che avrebbe condotto Arezzo alla soggezione fiorentina. In quest’ottica il vescovo, in netta contrapposizione con suo fratello Pier Saccone, poté essere ricordato come «vir egregius»
Alla discesa in Italia di Ludovico il Bavaro, G. accorse ad incontrare il sovrano presso Trento. Il 31 maggio del 1327, presso la basilica di Sant’Ambrogio in Milano, innanzi a tutti i signori ghibellini del settentrione -Cangrande della Scala, i Marchesi d’Este, il figlio di Passerino da Mantova- G. poneva sul capo dello scomunicato Bavaro la corona di Re d’Italia. Seguendo il sovrano nella sua marcia verso Roma, presso gli attendamenti imperiali attorno a Pisa, il Tarlati si scontrava verbalmente con l’alleato Castruccio Castracani. Abbandonato il seguito di Ludovico, sulla via del ritorno G. morì presso Montenero in Maremma mentre era ospite degli Aldobrandini.
La sua eredità sarebbe stata raccolta nell’immediato, senza soluzione di continuità, dal fratello Pier Saccone il quale tuttavia, privo della dignità vescovile, dovette riconfigurare totalmente le basi sulle quali fino ad allora buona parte delle esperienze signorili aretine s’erano strutturate.
La distruzione degli archivi cittadini in conseguenza delle vicende che nel 1384 portarono all’assoggettamento fiorentino ha ridotto il novero delle fonti per lo studio della storia medievale aretina. Il più ed il meglio di quanto si è conservato è stato pubblicato nella raccolta del Pasqui, inaggirabile strumento per l’analisi della parabola tarlaresca.
L’archivio vescovile conserva documentazione inerente l’attività pastorale di G., di fatto indisgiungibile da quella più schiettamente politica. Presso l’Archivio di Stato di Firenze sono infine depositati i quattro protocolli notarili di ser Giunta di Mencio da Montelucci, notaio della curia episcopale aretina che rogò tra il 1316 ed il 1324.
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Gian Paolo G. Scharf è autore delle note relative a Sansepolcro e Città di Castello.
Gabriele Taddei è autore di quelle relative ad Arezzo e Castiglion Fiorentino.