di:
Maria Teresa Caciorgna
Prima metà XIV secolo- 8-maggio- 1387.
Dal novembre 1375 all’8 maggio 1387.
Signoria sovracittadina che da Civitavecchia, Viterbo e suo distretto rapidamente si allargò ad est e a ovest, tra le vie Cassia e Aurelia. Le conquiste si estesero dalla zona costiera (Tuscania, Corneto) verso i comuni della valle Teverina: Amelia e Porchiano, Terni, il castello di Palazzolo, Civita Castellana. L’area dominata da Francesco fu più vasta di quella del padre Giovanni, e, seppure dovette essere difesa con un continuo stato di guerra sostenuto da truppe mercenarie aggiunte alle milizie del di Vico, raggiunse la massima estensione di un principato nel Patrimonio della Chiesa.
Vedi schede Faziolo di Vico e Giovanni di Vico.
Francesco, figlio primogenito di Giovanni (III) di Vico, partecipò alle vicende che impegnarono il signore di Viterbo e Orvieto contro le milizie pontificie e contro il tribuno Cola di Rienzo, che lo tenne prigioniero a Roma (1347). Alla morte del padre (1366), ereditò il titolo di Prefectus Urbis.
Prefectus Urbis dal 1366. Defensor comunis et populi Viterbii, dominus di Tuscania (7 dicembre 1375), di Amelia ( 14 dicembre), di Terni (il 18 dicembre), di Corneto (19 dicembre)- ma la riscossa del Vitellelschi riportò Corneto nella sovranità della Chiesa l’anno successivo, e poi Civita Castellana, Bolsena, Montefiascone.
Le condizioni del Patrimonio di San Pietro in Tuscia, l’esosità degli ufficiali pontifici e in particolare del tesoriere del Patrimonio Angelo Tavernini di Viterbo furono concausa alla presa di potere di Francesco di Vico a Viterbo, avvenuta con un colpo di mano. Dopo essere stato contattato dai viterbesi per allontanare dalla città il tesoriere ed eliminare il dominio pontificio, nel novembre 1375 entrò in città sotto false spoglie, facendosi aiutare dal fratello Battista, insieme riuscirono a riunire un gruppo di 50 seguaci ben presto divenuti una moltitudine che sulla piazza del Comune lo proclamarono signore. Venne bruciato il registro delle condanne per malefizi della curia pontificia; il tesoriere Angelo Tavernini e il rettore del Patrimonio Niccolò Orsini si rifugiarono nella rocca fatta costruire dall’Albornoz e a domare la ribellione di Viterbo non bastò l’esercito di Giovanni Acuto, giunto in soccorso degli assediati. Invece l’aiuto delle truppe inviate da Firenze al comando di Enrico Paher costituì un valido sostegno per Francesco per continuare l’assedio della rocca, quasi completamente rasa al suolo. Occupati i migliori palazzi di Viterbo, Francesco e i suoi fratelli e lo zio Ludovico, il cugino Giovanni di Sciarra di Vico si organizzarono per espugnare le città e i comuni governati da ufficiali pontifici. A Viterbo si aggiunse Tuscania (7 dicembre 1375), Amelia (14 dicembre) e Terni (il 18), Corneto, nel gennaio 1376 fu la volta di Tarquinia, persa poco dopo per la riscossa delle milizie romane al comando di Giovanni Cenci. In risposta Francesco occupò la rocca di Carcari. A nulla valse la condanna all’interdetto di papa Gregorio XI, in quanto il di Vico, senza curarsene, riuscì a battere gli eserciti pontifici e angioini, a danneggiare il contado di Montefiascone e i territori limitrofi, anche del distretto di Roma (Vitorchiano), a razziare raccolti per supplire alla carestia che prostrava Viterbo. Conquistò anche Bolsena. La dilagante espansione della dominazione fu rallentata dal trattato di pace con il pontefice e con il popolo romano nonostante le proteste di Firenze che veniva a perdere un forte alleato della Lega antipontificia. La pacificazione con Gregorio XI fu vantaggiosa per il di Vico, in quanto potè recuperare il suo prestigio a Roma, mantenere la supremazia a Viterbo non contestata dal pontefice, che in segno di benevolenza battezzò la figlia che ebbe da Perna Orsini con il nome di Gregoria. I patti stabiliti da Gregorio XI non furono rispettati dal suo successore Urbano VI, ed allora, presi accordi con i cardinali francesi, fautori di una nuova elezione, Francesco di Vico divenne un valido appoggio per i dissidenti nell’Italia centrale. Domata la rivolta scoppiata a Viterbo in seguito alle sue posizioni, Francesco di Vico riuscì a ricacciare le milizie di Bernardo dela Salle e imprigionò molti rivali politici. In risposta Urbano VI fece imprigionare la moglie e la figlia che si trovavano a Roma. Le rappresaglie si susseguirono, Francesco di Vico assoldò milizie bretoni e con gli alleati di parte clementista prese parte all’attacco a Roma. Urbano VI per piegarne la resistenza lo scomunicò e lo privò dell’ufficio di Prefetto. Dal canto suo Clemente VII inviò rinforzi in uomini, armi, cavalli con i quali vennero devastate le campagne, assediata Tarquinia, depredati i castelli della Val Tiberina. Attaccato dalla compagnia di Alberico da Barbiano, sostenne un lungo assedio rinchiuso a Viterbo. Ritiratisi gli avversari si rivolse verso Ronciglione del conte Pietro dell’Anguillara, calò su Tarquinia e Tuscania e riuscì a riprendere Vetralla. Il di Vico condusse una guerra senza sosta contro i seguaci di Urbano VI dalla quale uscì vittorioso, si assicurò il castello di Bracciano e controllò il lago omonimo, attaccò i territori del conte di Soana Guido Orsini. Arrivò a devastare le campagne senesi e per questo il comune di Siena gli contrappose le truppe di Guido d’Asciano e di Niccolò Malatesta- anche queste furono sconfitte e Francesco si appropriò della cassa del comune di Siena, in seguito stipulò con esso un trattato di pace -. Fu presa di mira la sede del rettore, Montefiascone: la città fu assediata, le campagne distrutte, servendosi del vescovo scismatico di Montefiascone, il Prefetto ottenne la resa della città. Subito dopo riprese Tuscania e Montalto di Castro. La dominazione aveva raggiunto la massima estensione.
La presa di potere a Viterbo, avvenuta per acclamazione del popolo, fu calorosamente accolta da Firenze che accettò Viterbo e Francesco di Vico nella Lega. Gli Otto di guerra informarono Bernabò Visconti, con missive successive delle vittorie di Francesco sulle diverse città. Il di Vico fu confermato dall’imperatore Carlo IV Prefectus Urbis, questi trasferì a lui e alle sue sorelle il tributo di 2000 fiorini che la repubblica fiorentina versava a suo padre Giovanni di Vico. Dai registri dei Camerlingati di S. Angelo in Spata di Viterbo risulta che aveva mantenuto il titolo di Defensor comunis et populi Viterbii accompagnato a quello di Prefetto (Dei gratie Alme Urbis prefecti) ma era anche insignito del titolo onorifico di magnifici principis Francisci de Vico.
La maturata esperienza a fianco del padre aveva preparato Francesco ad assumere compiti di governo e, favorito dalle condizioni delle città del Patrimonio, concepì subito un disegno di dominio a vasto raggio. Né a Viterbo e neppure negli altri luoghi Francesco alterò gli organi di governo del comune: gli Otto Priori, il podestà, i consigli mantennero le funzioni che esercitavano in precedenza. Un appesantimento del potere personale cominciò ad esercitarlo quando prese aperta posizione per i cardinali dissidenti e poi per il papa francese. Alla sollevazione di Viterbo contro la sua scelta fece imprigionare molti cittadini e impiccare l’ambasciatore di Urbano VI. Le rappresaglie e le azioni di guerra monopolizzarono da allora l’attività di Francesco di Vico, che, presi al suo servizio i mercenari bretoni, si difese dalle truppe pontificie, alle quali dava man forte l’esercito dei Romani, che intendevano conquistare in maniera definitiva Viterbo. Francesco riuscì a dilatare al massimo, negli anni dello scontro con Urbano VI, la sua dominazione, conquistando e riconquistando castelli e città del Patrimonio fino al momento della rivolta generale dei viterbesi (1387).
La documentazione comunale di Viterbo non aiuta a definire meglio le linee di governo, mentre le cronache cittadine e i registri pontifici attestano l’attenzione alle esigenze alimentari della popolazione per scongiurare la carestia che imperversava nella città facendo distribuire tra i viterbesi enormi quantità di viveri raccolti nelle razzie compiute nei territori e castelli vicini. Dopo la resa di Montefiascone (aprile 1385), i cui raccolti erano stati distrutti, inviò una generosa scorta di grano.
Per fronteggiare le ingenti spese delle compagnie mercenarie, ricorse alla tassazione forzosa del clero: la taglia, in particolare della chiesa di Sant’Angelo in Spata seguaci urbanisti, fu richiesta una prima volta nel giugno 1379 e fu riproposta negli anni successivi. Alla grande penuria di denaro cercò di ovviare battendo una nuova moneta, dopo aver deprezzato il valore di quella allora corrente. Un provvedimento che da un lato si colloca tra gli espedienti per avere numerario dall’altro però attesta il livello di consapevolezza del suo potere. “Il suo dominio privo di coesione e “organa mento” aveva l’apparenza di una conquista precaria e i suoi vassalli non vedevano che il ribelle del papa, che con il suo comportamento vietava la riconciliazione”. Queste le parole di Cesare Pinzi che pur da un giudizio positivo di Francesco di Vico nel delineare la fine del suo dominio.
Fedele alla tradizione familiare, Francesco di Vico capeggiò le ribellioni che da un capo all’altro del Patrimonio della Chiesa si accendevano contro gli ufficiali pontifici arrivando a combattere nella Sabina. Vicino ai Perugini militò al loro fianco, entrò nella Lega capeggiata da Firenze e divenne la punta avanzata verso Roma. Parteggiò poi per i cardinali dissidenti e per il papa francese Clemente VII, alleandosi con i suoi fautori nel Lazio, Rinaldo e Giordano Orsini, Onorato I Caetani, Luca Savelli partecipando alle campagne di guerra contro gli urbanisti. Divenuto solidale con Corrado Monaldeschi (1380), guadagnò l’amicizia di molti orvietani. Le relazioni con la Repubblica di Siena, fedele urbanista, furono influenzate dalla diversa scelta politica: Siena inviò contro il Di Vico un contingente militare quando questi aveva invaso le terre meridionali del contado, in seguito alla pace stipulata i rapporti si ricomposero.
Nel 1372 aveva sposato Perna di Giordano Orsini nel feudo di famiglia di Galeria, che gli portò una dote di 3500 fiorini, in cambio consegnò Bieda (Blera) a Francesco Orsini. Ebbe, almeno cinque figli, Gregoria battezzata da Gregorio XI, Giacoma tenuta al fonte battesimale da cardinali francesi, imprigionata con la madre da Urbano VI, Rolandino, forse morto in giovane età, Galasso e un figlio naturale Giovanni, tristemente famoso nelle cronache cittadine per la crudeltà nel vendicare l’uccisione del padre.
Vicario del padre Giovanni ad Orvieto (1353 – 1354) esercitò funzioni di governo fino a quando non vi fu la resa (giugno 1354). Una delle condizioni imposte dall’Albornoz a Giovanni fu che il figlio Francesco combattesse nell’esercito pontificio (suo fratello Battista era stato imprigionato nelle carceri di Montefiascone), perciò nel 1355 Francesco di Vico seguì il legato pontificio nelle Marche al comando di un reparto di 20 cavalieri. Lasciò il campo per seguire l’imperatore Carlo IV di Boemia a Roma e poi a Pisa. Nel 1359 combattè a fianco dei Perugini contro il governo pontificio. Rientrato in pace con la Chiesa, nel 1360, tornò nella Marca al seguito dell’Albornoz con un proprio contingente. Di nuovo alleato dei Perugini, nel 1369, prese parte con Simiotto Orsini alle battaglie contro l’esercito pontificio. Nel 1370, mentre l’esercito papale assediava Vetralla fece atto di sottomissione agli ufficiali pontifici e ruppe l’accordo con i Perugini. Si legò ai Fiorentini, animatori della Guerra degli Otto santi, una insurrezione antipapale e antifrancese, che aveva guadagnato un gran numero di città dell’Italia centro-settentrionale.
Pur non essendo animato da particolare fervore religioso, tanto che partecipava alle cerimonie liturgiche del clero di parte urbanista come a quelle degli avignonesi, Francesco di Vico non si preoccupò di sostituire il vescovo diocesano Giacomo che alla sua scelta per i dissidenti si era allontanato da Viterbo. Il clero viterbese era diviso in due fazioni: i canonici della cattedrale e di Santo Stefano parteggiavano per il papa francese invece Santa Maria Nuova e Sant’Angelo in Spata seguivano Urbano VI. Egli si serviva dei chierici di parte clementista (arciprete della cattedrale) per l’imposizione e la riscossione della taglia (imposita, tallia, datium sono i termini usati), ma accoglieva anche i doni che le chiese cittadine, secondo una tradizione consolidata, tributavano al capo riconosciuto. Sempre dai Camerlingati di Sant’Angelo in Spata risulta che ogni anno alla festa della Candelora insieme a suo figlio Rolandino, riceveva i ceri benedetti. Gia nel 1379 il di Vico aveva imposto al clero di Viterbo una taglia di 5000 fiorini, le imposizioni si ripeterono anche negli anni successivi, nel 1387 impose al clero di Terni di pagare a lui le decime dovute alla Chiesa.
Si servì del vescovo di Montefiascone, il francese Pietro di Anguisson di parte clementista, per indurre gli abitanti di questa città ad entrare nella sua dominazione.
Non sono ricordati lavori monumentali, ma fu sollecito nell’edificazione di fortezze e roccaforti a Viterbo (attestate nel 1377) e a Vetralla, aveva inoltre rafforzato le difese della costa tirrenica in particolare il porto di Civitavecchia, dove teneva ancorate alcune galee, altre ne fece costruire nell’arsenale di Genova.
Nella funzione di Prefectus Urbis, Francesco di Vico procedette alla concessione di patente da notaio a cittadini romani già nel 1372 e continuò negli anni successivi. Il sigillo di Francesco di Vico ricalcava quello dei suoi predecessori con l’aquila imperiale al centro e l’iniziale del suo nome.
Non sono rimaste riforme statutarie avvenute nel suo periodo: verosimilmente però si erano avute in quanto di alcuni capitoli si ebbe la cassazione diversi anni dopo.
Nel 1386, all’apice del suo potere, pressato dalle necessità finanziarie, fece coniare due tipi di monete: bolognini da due soldi e quattrinelli da quattro denari, dopo aver deprezzato la moneta corrente di un sesto per favorire il corso della sua moneta. Nei bolognini era impresso San Lorenzo il patrono di Viterbo con la graticola – simbolo del martirio-, nei quattrini vi era la croce e “la golpe” ( Pinzi p. 423).
Il sistema di Urbano VI di animare contro il di Vico tentativi di rivolta servendosi di fedeli alla sua causa fomentò diverse ribellioni dei viterbesi e delle altre città: una prima nel maggio 1378 fu domata facilmente, il papa Urbano VI per contro imprigionò la moglie e la seconda figlia Giacoma. Nel settembre 1378, alla decisa svolta clementista, nonostante l’ampio dissenso, Francesco riuscì a mantenere saldo il suo potere. Rintuzzò in breve tempo un affronto ricevuto dagli abitanti di Tuscania che lo avevano invitato a prendere il dominio della città, ma non appena entrato con i suoi soldati furono attaccati e vi fu una grande strage. Urbano VI rispose con la scomunica e la privazione dell’ufficio di Prefetto. Nel 1384 subì la sconfitta da parte di Guido d’Asciano un condottiero di Siena che mise a morte lo zio Ludovico, ma la riscossa del Prefetto non si fece attendere e assoldato Giovanni Acuto e Giovanni d’Azzo degli Ubaldini riusci a sconfiggere l’esercito senese, la repubblica di Siena fu costretta a chiedere la pace. Le azioni di guerra continuarono per tutto il periodo del suo dominio fino rivolta definitiva del popolo di Viterbo nel 1387.
I due pontefici antagonisti usarono nei suoi confronti epiteti diversi: fellone, infame, detestabile da parte di Urbano VI invece apprezzamenti da parte di Clemente VII. I cronisti viterbesi danno un giudizio lusinghiero come soldato (valoroso) e diplomatico sottile e volpino, ma un barone duro, aspro.
La parabola di Francesco di Vico si concluse per la ribellione di Viterbo, dopo che una campagna vittoriosa per le milizie pontificie aveva recuperato alla Chiesa alcune città ( Narni, Amelia, Terni) e il rettore cardinale Orsini e il nipote Cola approntavano un esercito per assediare Viterbo. La sollevazione generale esplose il 5 maggio 1387, e la popolazione armata al grido di “Viva la Chiesae morte al Prefetto” si dette nelle strade e piazze di Viterbo, fu fermata dalla cavalleria dei Bretoni che il di Vico aveva assoldato. La fine era solo rinviata infatti due giorni dopo gli armati tornarono a scontrarsi, le milizie di Francesco ebbero la peggio ed egli fu trafitto con la spada da tal Angelo di Palino Tignosi, esponente di una grande famiglia di Viterbo da tempo sbandita dal di Vico.
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