di:
Francesco Bianchi
1323-1385
1354-1385
Vedi scheda famiglia Visconti. La città capitale è Milano.
Vedi scheda famiglia Visconti. Bernabò era figlio cadetto di Stefano Visconti e Valentina Doria, fratello di Matteo (II) e Galeazzo (II).
Dominus generalis di Milano (1354); vicario imperiale di Milano e degli altri centri appartenenti all’impero e già governati dai Visconti (1355).
Alla morte di Giovanni Visconti (1354), gli succedettero naturalmente i nipoti Matteo (II), Bernabò e Galeazzo (II), che l’arcivescovo aveva già associato al potere.
La signoria di Bernabò e dei suoi fratelli era già stata prevista nel 1349, all’indomani della morte di Luchino Visconti, quando il Consiglio generale di Milano aveva riconosciuto il dominio dell’arcivescovo Giovanni e approvato l’ereditarietà del titolo signorile per linea maschile e da legittimo matrimonio. Nel 1354, poi, la stessa assemblea municipale confermò formalmente la dignità di domini generales ai tre fratelli, che l’anno successivo (1355) ottennero dall’imperatore Carlo IV anche il titolo di vicari di Milano e degli altri centri dello Stato visconteo appartenenti all’impero; nel 1365 e nel 1368 l’imperatore rinnovò a Bernabò e Galeazzo (II) il conferimento dei vicariati.
All’indomani della successione a Giovanni, le terre dello Stato visconteo furono sottoposte a una ripartizione di natura patrimoniale fra i tre eredi, tranne le città di Milano e Genova, che rimasero possesso comune (ma a Milano i tre fratelli avrebbero eletto il podestà a turno e controllato ognuno due porte della cinta urbana). Bernabò ebbe Bergamo, Brescia, Cremona, Crema, Soncino, la Valcamonica e la zona del Garda. La precoce morte di Matteo (II), avvenuta nel 1355 e accompagnata da sospetti di avvelenamento, dietro cui si paventava l’azione dei fratelli, comportò un’ulteriore divisione dei beni tra Bernabò e Galeazzo (II): al primo furono assegnate anche Lodi, Parma e Bologna. La diarchia dei due fratelli superstiti si rivelò apparentemente serena e collaborativa, pur fra reciproche diffidenze, e non compromise la solidità della loro azione politico-militare, soprattutto nei confronti delle forze avverse.
Entrambi i fratelli si avvalsero di vicari generali per la gestione dei rispettivi domini, ma Bernabò impostò un sistema di governo più decentrato rispetto a quello del fratello, delegando ai suoi numerosi figli (legittimi e illegittimi) e persino alla moglie il governo dei vari centri sottoposti al suo dominio, favorendo così processi di specializzazione territoriale nelle amministrazioni periferiche direttamente dipendenti dalla signoria viscontea, con il risultato di alleggerire il carico di lavoro ormai esorbitante che gravava sugli apparati centrali.
Bernabò intraprese una politica legislativa su vasta scala, incoraggiando la riforma degli statuti comunali in diverse città soggette e stabilendo anche una precisa gerarchia delle fonti normative: nel 1371 ordinò al podestà di Reggio che la discussione di ogni materia dovesse contemplare prima i decreti signorili, poi gli statuti comunali, infine il diritto comune. Non mancarono, tuttavia, forme di resistenza alla penetrazione delle norme signorili da parte delle comunità soggette. Anche il tentativo di contrastare le immunità particolari per uniformare il panorama legislativo di un dominio ancora composito si rivelò inconcludente, ma rivela comunque una tensione verso il consolidamento istituzionale di un sistema politico che aspirava ad assumere una fisionomia più statuale.
Per limitare la dipendenza dalle truppe mercenarie, contro cui cercò inutilmente di trascinare altri signori o città italiani, Bernabò promosse il reclutamento di milizie rurali (cernite) e attivò in diverse località uffici di arruolamento di stipendiari alle dirette dipendenze del signore. Inoltre, organizzò in tutte le città soggette corpi armati scelti, i cui membri (provvisionati) avrebbero dovuto servirlo a cavallo, sia in tempo di pace che di guerra, dietro compenso di 8 fiorini al mese. Inoltre, si impegnò nella riorganizzazione delle strutture difensive presenti nei territori sotto il suo controllo, promuovendo la costruzione di cittadelle fortificate nei centri strategici (una politica già perseguita dal predecessore Luchino), l’abbattimento di numerosi castelli e il divieto di costruirne senza il suo consenso; da segnalare l’edificazione della cittadella di Bergamo (1355), che segnò pesantemente il tessuto urbano della città.
Durante le signorie di Bernabò e Galeazzo (II), i Visconti dovettero affrontare diversi tentativi di rovesciare la loro dominazione da parte di schieramenti variamente composti da altri signori o città italiani, di solito ispirati dal papato avignonese, e con massiccio ricorso a truppe mercenarie provenienti da varie parti d’Europa (Germania, Svizzera, Francia, Inghilterra), con tutte le complicazione legate ai frequenti cambi di fronte operati dai capitani di ventura. Il bilancio generale di questi scontri non compromise la sostanziale tenuta dello Stato visconteo e, anzi, fortificò il prestigio della casata milanese e spianò la strada ai successi di Gian Galeazzo.
Durante il biennio 1356-1358, Bernabò e Galeazzo (II) si opposero a un’affollata lega antiviscontea, sostenuta dall’imperatore e dal papa. Tra ribellioni e sortite i Visconti accusarono la perdita di Bologna, Genova, Asti, Novara e altri centri minori. Dopo la pace del 1358, stipulata a Milano, poterono recuperare immediatamente Novara e Alba, riconsegnate dal marchese di Monferrato Giovanni (II) Paleologo, che però si rifiutò di restituire Asti. Nel 1359, dopo sei mesi di assedio, l’esercito milanese espugnò Pavia, lungamente agognata dai Visconti e infine assegnata a Galeazzo (II). Il successivo tentativo di recuperare Bologna provocò un nuovo scontro con il papato avignonese, che si risolse con condanne per eresia e scomuniche a carico di Bernabò Visconti, cui furono revocati anche i vicariati concessi da Carlo IV. Solo nel 1364 Bernabò e il legato pontificio de la Roche firmarono un accordo, grazie alla mediazione di altre potenze, fra cui il conte di Savoia Amedeo VI e il re di Francia Carlo V: i Visconti avrebbero rinunciato a Bologna in cambio di un congruo compenso.
Nel complesso Bernabò e Galeazzo (II) erano usciti quasi indenni da questa prima serie di conflitti, nonostante un così ampio concorso di nemici. Le relazioni con la curia avignonese, però, non erano del tutto pacificate e nei progetti dei papi Urbano V e Gregorio XI, che miravano a riportare la sede papale a Roma, la potenza dei Visconti era percepita come un ostacolo da eliminare. Da qui la promozione di nuove leghe antiviscontee e nuovi scontri armati, che procurarono a Bernabò − particolarmente impegnato nell’area padana − la presa di Reggio (1371), acquistata per 50.000 da Feltrino Gonzaga, e la temporanea perdita di Vercelli (1373-1376). Solo nel 1378 si giunse a una pace stabile tra i Visconti e il papato. Nel 1378-1380 Bernabò appoggiò Venezia, impegnata nella guerra di Chioggia, ma senza ottenere alcun risultato.
Nel 1382 Bernabò sottoscrisse un accordo con Luigi duca d’Angiò, che cercava alleati per recuperare il regno di Napoli, come disposto dalla regina Giovanna e contro l’usurpazione di Carlo di Durazzo. La morte del francese (1384) e quella precedente del collegato Amedeo VI di Savoia (1383) compromisero però l’esito della spedizione armata e anche il matrimonio promesso tra Lucia di Bernabò e il figlio di Luigi d’Angiò, erede al trono di Napoli.
Bernabò fu uomo molto prolifico, non solo con la moglie Beatrice Regina della Scala. La rete di relazioni matrimoniali che coinvolse i suoi figli rispecchia pienamente la portata internazionale della sua signoria, che seppe instaurare buone relazioni con diverse casate principesche di Francia, Germania e Inghilterra, accedendo così agli ambienti più esclusivi dell’aristocrazia europea. Limitatamente alla prole legittima e ai matrimoni celebrati prima della morte di Bernabò, sappiamo che nel 1365 Verde fu data in sposa a Leopoldo d’Asburgo, fratello del duca Rodolfo IV, mentre Marco (1367), Taddea (1367) e Maddalena (1381) si unirono rispettivamente con Elisabetta, Stefano e Federico di Baviera, consolidando così i legami con la casata dei Wittelsbach. Valentina fu presa in moglie dal re di Cipro Pietro II di Lusignano (1377), Agnese da Francesco Gonzaga (1380), Antonia da Eberardo III conte di Württemberg (1380). Per rafforzare i rapporti fra il gruppo parentale di Bernabò e quello di Galeazzo (II), nel 1380 Caterina contrasse matrimonio con Gian Galeazzo (vedovo di Isabella di Valois), mentre l’anno successivo Ludovico sposò la cugina Violante (doppiamente vedova del duca di Clarence e di Ottone (III) Paleologo, marchese del Monferrato). Nel 1382 furono celebrate le nozze tra Carlo e Beatrice d’Armagnac. Non si concretizzarono, invece, i progetti di unione matrimoniale con maschi della casa d’Aragona e d’Angiò. Nel 1358, per concludere, i Visconti avevano acconsentito all’unione tra l’unica erede di Matteo (II) Visconti, Caterina, e Ugolino di Guido Gonzaga.
Dopo la morte di Giovanni Visconti, Bernabò e i suoi fratelli si assicurono che l’ufficio arcivescovile milanese rimanesse nelle mani della famiglia, e promossero l’elezione di Roberto Visconti di Pogliano, arciprete della metropolitana di Milano, proveniente da un ramo secondario del casato. La nomina, già caldeggiata dall’arcivescovo Giovanni, fu convalidata da papa Innocenzo VI nel 1355. Roberto non poteva certamente contare sul carisma e il prestigio del predecessore Giovanni. La conservazione del suo ufficio dipendeva dal consenso dei signori di Milano, nei confronti dei quali si dimostrò complice e solidale, accettando che imponessero al governo della Chiesa ambrosiana una rigida subordinazione, nel senso di un sistematico drenaggio (in parte addirittura istituzionalizzato) delle rendite assicurate dal patrimonio ecclesiastico, principalmente attraverso una intensa politica di alienazioni, infeudazioni e tassazioni. Né mancò una significativa presenza di molti membri provenienti da vari rami del casato visconteo nella gestione di diritti e beni ecclesiastici. La situazione generale dell’arcivescovado milanese non cambiò durante l’ufficio dei successori di Roberto Visconti († 1361) o dei loro vicari e, anzi, l’azione dei Visconti fu facilitata dall’indebolimento dell’autorità papale che seguì lo scisma del 1378.
Bernabò Visconti aveva posto la sua residenza principale a Milano, nel palazzo che era appartenuto allo zio Luchino, ampliandolo. L’edificio, che si trovava vicino alla basilica di San Giovanni in Conca, fu trasformato in una struttura fortificata, con alte torri e mura merlate. Presso l’altare maggiore di San Giovanni in Conca fece edificare il celebre e maestoso monumento funebre con statua equestre, fiancheggiato dalle figure allegoriche della Giustizia e della Fortezza, opera di Bonino da Campione (oggi conservata nel Castello Sforzesco): qui Bernabò sarà poi tumulato nel 1385.
A Bernabò Visconti è attribuita una fanatica passione per la caccia e i cani (si narra che ne possedesse cinquemila, distribuiti in diversi luoghi e accuditi secondo regole minuziosamente codificate). È nota anche la presenza di buffoni, giullari e più raffinati uomini di lettere presso la sua corte, così come la sontuosità delle feste organizzate in occasione delle nozze dei figli. Ebbe relazioni con Francesco Petrarca, durante il suo soggiorno milanese, e gli affidò delicati incarichi diplomatici, sebbene fosse il fratello Galeazzo (II) il principale interlocutore del poeta.
La signoria di Bernabò Visconti fu scandita da molteplici conflitti, che videro coinvolte non solo le principali potenze della penisola italiana, ma anche quelle europee. All’interno dello Stato visconteo, però, il governo di Bernabò non subì minacce particolari, se si esclude la clamorosa ribellione del nipote Gian Galeazzo, che nel 1385 pose fine alla dominazione dello zio, con il quale non condivideva ormai da tempo strategie e obiettivi politici. Da segnalare anche alcuni episodi di ribellione popolare interni allo Stato visconteo, soffocati però nel sangue dagli eserciti di Bernabò (1374).
La figura di Bernabò Visconti è ricordata e discussa da molti cronisti e novellieri coevi, che ne hanno trasmesso un ritratto in parte distorto da motivi propagandistici antiviscontei, specie se prodotto in ambienti filopapali o fiorentini, abili a descriverlo come uomo lascivo, impulsivo, crudele, eccentrico, fanatico della caccia e dei cani.
Nel maggio 1385 Gian Galeazzo Visconti ricorse all’inganno per arrestare lo zio Bernabò, inscenando contro di lui un processo fondato su false accuse. Lo fece rinchiudere nel castello di Trezzo, dove Bernabò morì nel dicembre di quello stesso anno, forse avvelenato.
Vedi scheda famiglia Visconti.
F. Cognasso, L’unificazione della Lombardia sotto Milano, in Storia di Milano, V, La signoria dei Visconti (1310-1392), Milano 1955, pp. 361-519; A. Viscardi, La cultura milanese nel secolo XIV, in Storia di Milano, V, La signoria dei Visconti (1310-1392), Milano 1955, pp. 603-608, 612-613; C. Baroni, La scultura gotica, in Storia di Milano, V, La signoria dei Visconti (1310-1392), Milano 1955, pp. 808-812; F. Cognasso, Istituzioni comunali e signorili di Milano sotto i Visconti, in Storia di Milano, VI, Il ducato visconteo e la repubblica ambrosiana (1392-1450), Milano 1955, pp. 475, 485, 489, 526-527, 532-533; F. Cognasso, I Visconti, Varese 1966, pp. 195-199, 218-220, 222-282; A. R. Natale, Per la storia dell’Archivio Visconteo. Frammenti di un Registro dell’Archivio Signorile (Reg. di Bernabò, a. 1364), «Archivio storico lombardo», 102 (1976), pp. 35-82; A. R. Natale, Per la storia dell’Archivio Visconteo Signorile. Il frammento del Registro di Bernabò del 1358, «Archivio storico lombardo», 103 (1977), pp. 9-46; C. Storti Storchi, Aspetti generali della legislazione statutaria lombarda in età viscontea, in Legislazione e società nell’Italia medievale. Per il VII centenario degli statuti di Albenga (1288), Bordighera (IM) 1990 (Atti del Convegno, Albenga, 18-21 ottobre 1988), pp. 89-90; G. Soldi Rondinini, Chiesa milanese e signoria viscontea (1262-1402), in Diocesi di Milano, I, a cura di A. Caprioli, A. Rimoldi e L. Vaccaro, Brescia 1990, pp. 309-317; L’età dei Visconti. Il dominio di Milano fra XIII e XV secolo, a cura di L. Chiappa Mauri, L. De Angelis Cappabianca e P. Mainoni, Milano 1993, ad Indicem; M. Fossati e A. Ceresatto, La Lombardia alla ricerca d’uno Stato, in Comuni e signorie nell’Italia settentrionale: la Lombardia, a cura di G. Andenna, R. Bordone, F. Somaini e M. Vallerani, Torino 1998, pp. 536-550; G. A. Vergani, L’arca di Bernabò Visconti al Castello Sforzesco di Milano, Cinisello Balsamo (MI) 2001; A. Gamberini, Lo stato visconteo. Linguaggi politici e dinamiche costituzionali, Milano 2005, ad Indicem; A. Cadili, Giovanni Visconti arcivescovo di Milano (1342-1354), Milano 2007, ad Indicem; L. B. Frigoli, “Un denaro in meno di Cristo”. Bernabò Visconti nella novellistica toscana, «Archivio storico lombardo», 133 (2007), pp. 51-90; N. Covini, Cittadelle, recinti fortificati, piazze munite. La fortificazione nelle città nel dominio visconteo (XIV secolo), in Castelli e fortezze nelle città italiane e nei centri minori italiani (secoli XIII-XV), a cura di F. Panero e G. Pinto, Cherasco (CN) 2009 (Atti del Convegno, Cherasco, 15-16 novembre 2008), pp. 52-56. Vedi poi la bibliografia generale sotto la scheda dedicata alla famiglia Visconti.
Bernabò Visconti era un uomo colto, dotato di una buona cultura giuridica, che si suppone avesse ricevuto durante frequentazioni giovanili dello Studio di Bologna.